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VIBO VALENTIA – Una vicenda dolorosa, che risale al 2016 e che adesso ha trovato la sua conclusione con la sentenza dal giudice civile Loredana Surace il quale ha condannato l’Azienda sanitaria di Vibo per come chiesto da una famiglia di un centro del Vibonese. La coppia, quattro anni fa, ha citato in giudizio l’Asp, per il risarcimento danni da 500mila euro, dopo che la loro figlia era nata senza una mano e parte del braccio destro, circostanza che, secondo l’accusa, era stata omessa dal medico ed era stata appresa dalla madre solo al momento del parto, «mortificando così la possibilità di una libera scelta in ordine ad una eventuale interruzione della gravidanza».
Nel processo, l’Azienda ha sostenuto come la mancata evidenza dell’agenesia della mano destra non sia stata conseguenza di imperizia o negligenza dei sanitari ma sia stata frutto della non affidabilità e non infallibilità della metodica ecografica». I genitori della piccola hanno ritenuto responsabile non il medico quanto, piuttosto, la stessa Asp per il presunto «impedimento della prestazione medico-professionale svolta dal sanitario la cui condotta inadempiente si inserisce in un contesto nel quale i trattamenti forniti dalla struttura sono stati deficitari».
In buona sostanza, palazzo Ex Inam non avrebbe messo in condizione il dottore di poter operare con attrezzature adeguate. «Nel caso di specie – si legge in sentenza – gli attori hanno adempiuto all’onere probatorio, mentre il sanitario e la struttura convenuta non hanno fornito la prova in ordine alla non imputabilità del fatto e quindi alla non ascrivibilità dell’esito dell’intervento alla condotta posta in essere, limitandosi a rilevare che non sempre le menomazioni fetali possono essere diagnosticate (seppur la mancanza di una parte di un arto è facilmente individuabile anche attraverso una semplice ecografia), e che I’eccessiva adiposità addominale della gestante ha rappresentato un ulteriore fattore limitante I’ esame (in tal caso sarebbe stato utile eseguire un esame ecografico di secondo livello, o consigliare alla paziente di recarsi presso un centro specializzato per una più approfondita analisi)». Ad ogni modo, conclude il giudice, «dalla documentazione emersa, risulta, quindi provata la responsabilità della struttura sanitaria provinciale e, per essa, del personale sanitario operante nella stessa, nella causazione dell’evento di danno che ha interessato la bimba»; da qui la sentenza condanna dell’Asp e al risarcimento dei danni morali nei confronti dei genitori nonché al pagamento delle spese legali.
«L’attività medica omissiva – afferma l’avvocato Giuseppina Sibio, legale della coppia – costituisce condotta causativa di danni direttamente nella sfera giuridica della madre, che è titolare del diritto di scegliere consapevolmente, in presenza di presupposti tassativi, se portare avanti o meno la propria gravidanza nel caso in cui il nascituro possa avere gravi malformazioni o patologie riscontrate durante la gestazione. Le Sezioni Unite affrontano il tema, ritenendo sussistente un danno da nascita indesiderata in capo alla madre, che può agire nei confronti del medico per avere omesso esami ulteriori che avrebbero dimostrato l’esistenza di patologie del feto».
Per quanto riguarda il diritto a non nascere se non sano, il danno da esistenza in stato di disabilità, rileva ancora il legale della coppia, non sussiste in capo al neonato perché non è contemplato tra i diritti oggetto di tutela, e perché farebbe sorgere paradossi giuridici, in quanto il figlio potrebbe chiedere il risarcimento dei danni alla madre ogni qualvolta la stessa si astenga dall’abortire, essendo l’interruzione di gravidanza frutto di una libera scelta consapevole.
«Il diritto a non nascere se non sano non è un diritto esercitabile dal nascituro dopo la nascita perché considerato un diritto adespota, perciò non fa sorgere alcuna pretesa risarcitoria invocabile dal neonato. Un pensiero, il mio, doveroso per dare conforto a chi ha perso la fiducia nelle istituzioni».
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