L'auto distrutta di Cricrì
3 minuti per la letturaIL verdetto è definitivo. La prima sezione penale della Suprema corte di Cassazione ha infatti dichiarato inammissibile il ricorso presentato dall’avvocato Salvatore Staiano nell’interesse di Alfonsino Ciancio, il 30enne di Gerocarne accusato dell’omicidio, in concorso con la madre Liberata Gallace e Fiore D’Elia, dell’organista 49enne Giuseppe Damiano Cricrì, commesso nelle campagne di Acquaro il 21 ottobre del 2015 in cui il suo corpo venne bruciato all’interno della sua auto dopo essere stato colpito con un oggetto contundente in un’altra località poco distante.
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Un delitto che avrebbe avuto quale movente il fatto che la donna non si rassegnava alla fine della relazione con la vittima.
Pena di secondo grado a 14 anni confermata e, dunque, definitiva per il giovane imputato per come aveva chiesto il procuratore generale e il patrono di parte civile – in rappresentanza dei familiari della vittima -, l’avvocato Giovanni Vecchio.
Riconosciuta la penale responsabilità di Ciancio in tutti i gradi di giudizio, il processo si era focalizzato sull’esclusione delle aggravanti e sul riconoscimento delle attenuanti. Infatti, la Corte di Assise d’Appello di Catanzaro aveva ridotto sensibilmente la pena inflitta al giovane imputato dal gup di Vibo (30 anni) portandola, come detto, a 14. A determinare un abbassamento sostanziale dell’entità degli anni di reclusione è stato anche il riconoscimento delle attenuanti generiche.
Sull’aspetto dell’esclusione dell’aggravante della premeditazione si era soffermato alla passata udienza il sostituto procuratore generale Luigi Salvatore Maffia che nel corso della sua requisitoria si era soffermato, sì, sull’efferatezza del delitto ma, proprio in ordine alla posizione del giovane, aveva evidenziato come questi non fosse a conoscenza dei propositi omicidiari della madre che – secondo l’accusa – avrebbe voluto punire Cricrì perché aveva preferito un’altra a lei. Ciancio, in buona sostanza, si sarebbe trovato sul luogo dell’aggressione alla vittima senza averne mai parlato con la donna né con D’Elia.
E così, in linea con quanto aveva chiesto la Procura di Vibo nel primo grado, aveva chiesto alla corte di Assise d’Appello di Catanzaro, una pena di 18 anni di reclusione. Di parere totalmente opposto era stato l’avvocato Vecchio che aveva evidenziato la sussistenza dei presupposti per ritenere l’omicidio preordinato e ciò «si comprende sia dall’esecuzione con cui questo è stato commesso (l’uomo fu attirato in una trappola, ndr), sia da tutta l’impostazione delle telefonate tra il 29enne e gli altri imputati, il luogo in cui avvenne l’aggressione mortale (aperta campagna, ndr) e il fatto di essersi portati le taniche di benzina appresso per dare alle fiamme, in un altra zona, anche questa lontana da occhi indiscreti, l’auto con all’interno il cadavere».
Da parte loro, gli avvocati Bruno Ganino e Salvatore Staiano avevano invocato un verdetto assolutorio per il proprio cliente sulla base del fatto che tutto il processo è basato su una serie di indizi che non riescono a raggiungere l’evidenza, ma neanche il sospetto della prova. Nello specifico, la difesa contestato anche le motivazioni della sentenza di primo grado – che ha visto l’imputato condannato a 30 anni – rilevando una serie di «vistose incongruenze» sia in ordine alla condotta del proprio assistito che sui suoi spostamenti.
Nei mesi scorsi la Corte d’Assise ha inflitto una pena di 24 anni di reclusione a Liberata Gallace e di 22 a Fiore D’Elia.
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