Il ponte da cui si gettò Sonia Pontoriero
2 minuti per la letturaVIBO VALENTIA – La morte di Sonia Pontoriero, che si uccise nel settembre 2016 gettandosi da un viadotto dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria (oggi autostrada del Mediterraneo) (LEGGI LA NOTIZIA), non è un semplice suicidio, almeno non lo è per il giudice dell’udienza preliminare di Vibo Valentia.
Secondo il magistrato ci furono responsabilità per la morte di Sonia Pontoriero. Il decesso non avvenne sul colpo ma la donna, la cui caduta fu attutita dalla vegetazione, morì in ospedale a causa delle devastanti lesioni riportate. Il gup Gabriella Lupoli, infatti, ha rinviato a giudizio i tre operatori, due specialisti e un infermiere, indagati nella vicenda accogliendo le richieste formulate dal pm Claudia Colucci (LEGGI LA NOTIZIA).
Il 24 gennaio del 2019 i tre compariranno davanti alla Corte d’Assise di Catanzaro, per difendersi dal reato di concorso in abbandono di persona incapace, con l’aggravante di averne cagionato la morte.
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Si tratta della psicologa Giovanna De Maria, di 62 anni; della psichiatra Fulvia Franca Mazza (63) e dell’infermiere Raffaele Sette (57), i cui legali avevano chiesto il proscioglimento evidenziando, in particolare, l’assenza del nesso causale tra l’arrivo della donna in ospedale, la presa in consegna della stessa da parte dei sanitari e la decisione della vittima di lasciare i locali per poi dirigersi verso l’autostrada.
Parte offesa è Rosa Garretta, la madre della vittima.
Secondo le indagini, Sonia Pontoriero, qualche ora prima di suicidarsi, era stata accompagnata dai parenti in ospedale in evidente scompenso psicotico per essere sottoposta a un Trattamento sanitario obbligatorio (Tso). Qui, però, i sanitari, secondo quanto riportato nel capo d’imputazione, avrebbero abbandonato a se stessa la donna, già giudicata incapace per malattia di mente e da una patologia psicotica con deliri persecutori, omettendo di sottoporla al trattamento e provvedendo solo a firmare la proposta di Tso senza tuttavia eseguirlo, nonostante vi fossero tutti i presupposti e l’autorizzazione all’utilizzo della forza da parte di un familiare presente in sala.
La paziente si era allontanata dal nosocomio per raggiungere il luogo del suicidio imboccare in auto la A2, arrivare al bivio dell’Angitola, re-immettersi nella direzione opposta per fermarsi sul viadotto, scavalcare le protezioni e lasciarsi cadere nel vuoto.
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