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REGGIO EMILIA – C’era anche la mano di alcuni calabresi nel meccanismo che consentiva a una presunta gang dedita a frodi e bancarotte fraudolente di subentrare in aziende sane o in crisi per spolparle e avviarle al fallimento.
Almeno questa è l’accusa nei confronti di un gruppo di indagati originari di Vibo Valentia e Catanzaro ma operanti a Modena, e tra loro perfino un avvocato, ritenuti responsabili della fine ingloriosa di alcune società di capitali di Guastalla, nel Reggiano.
L’indagine è stata condotta dalla Procura di Reggio Emilia (il pm titolare è Iacopo Berardi) anche se a Modena è scattata la maggior parte delle perquisizioni, dei sequestri (di cellulari, tablet, computer e faldoni di documenti) e due persone sono finite in carcere.
Dopo quattro anni di intercettazioni e accertamenti documentali il Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza e la Squadra Mobile di Reggio Emilia hanno eseguito cinque misure cautelari (ma sono in tutto dodici indagati) con le accuse di concorso in bancarotta fraudolenta e reati fiscali.
In carcere Fausto Tacconi, 56 anni, modenese residente a Castelnuovo Rangone; Giovanni Battista Moschella, nato a Vibo Valentia, 63 anni, residente a Modena; ai domiciliari Gregorio Ciccarello, nato a Catanzaro 43 anni fa residente a Modena. Obbligo di firma per Tiziano Mancinelli, 66 anni, residente nel Viterbese e per Domenico Arena, avvocato di 46 anni di Vibo Valentia residente a Modena, civilista, specialista in diritto fallimentare. Quest’ultimo è stato sospeso dalla professione per un anno.
L’operazione è stata denominata non a caso “Melisseo” (Zeus nella mitologia greca era talvolta chiamato così perché da piccolo era stato nutrito con il miele delle api di Creta): uno dei rami di azienda della prima società fallita, nel 2018, era, infatti, l’apicoltura. Ma di dolce c’è ben poco. L’inchiesta si è alimentata anche della segnalazione della moglie di un amministratore di una delle ditte coinvolte, che ha riferito agli inquirenti varie anomalie.
Sotto la lente sono così finiti i calabresi (e i loro prestanome) che, a quanto pare, agivano in maniera seriale secondo un modus operandi rodatissimo: si intestavano le società, smettevano di pagare utenze, tributi, fornitori e dipendenti e cessavano la produzione. Poi svuotavano magazzini, capannoni e conti correnti e nascondevano le prove. Il compito del legale sarebbe stato proprio quello di far sparire le scritture contabili o presentare ricorsi per conto di prestanome irreperibili, ciò che consentiva alla presunta gang di trasferire fittiziamente la sede all’estero, in Portogallo o in Bulgaria. Gli indagati si sarebbero impossessati di 1,6 milioni di euro e avrebbero commesso reati fiscali per altri 1,3 mln.
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