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VIBO VALENTIA – Al vertice della cosca della ‘ndrangheta c’era Fortunato Patania, il capo famiglia, l’uomo che solo con la sua presenza incuteva timore e paura. Fedelissimo della cosca dei Mancuso, Patania era il “padrone” non solo di Stefanaconi, ma anche a Sant’Angelo di Gerocarne, suo paese di origine. È quanto scrivono i magistrati della Dda di Catanzaro nel provvedimento di fermo nei confronti di 11 persone eseguito stamane dai carabinieri di Vibo Valentia (LEGGI) relativo all’operazione “Romanzo Criminale”.
Fortunato Patania fu ucciso nel settembre del 2011 mentre giocava a carte. Il delitto avrebbe scatenato la reazione rabbiosa della moglie, Giuseppina Iacopetta, la quale, secondo quanto racconta la collaboratrice di giustizia Loredana Patania, aveva dato «ordine ai suoi figli di fare in modo che il sangue dei rivali scorresse fin davanti la porta della sua abitazione».
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CON LE NOTIZIE SULL’OPERAZIONE ROMANZO CRIMINALE
E se la falsa devozione portava i clan a contendersi un ruolo nelle processioni fino a minacciare i parroci, Giuseppina Iacopetta, la sera dell’omicidio di Francesco Scrugli, ritenuto l’autore dell’omicidio di Fortunato Patania, dopo aver appreso la notizia si inginocchiò e ringraziò la Madonna. «Ero a casa di mia zia con Daniele – racconta la pentita – ed eravamo io Daniele e mia zia, perché quasi sempre la sera eravamo noi tre. Eravamo vicino al caminetto ed è arrivato mio cugino Pino il quale disse ‘Mamma è fatta, è stata fatta’. Sua mamma a quel punto si è inginocchiata e gli ha detto: ‘Quindi chi ha ucciso papà è morto?’ Giuseppe gli fa: ‘Eh…’, gli fa mio cugino Pino, ‘…lo hanno ucciso, gli altri due forse sono feriti però quello che ha ucciso papà è morto’. Lei si è inginocchiata e ha ringraziato la Madonna dicendo proprio: ‘Finalmente si è verificato quello che io volevo’. E me lo ricordo di preciso anche perché si è inginocchiata davanti a me».
Dopo la morte di Fortunato Patania era stata proprio Giuseppina Iacopetta, secondo l’accusa, a prendere le redini del clan insieme ai figli. A loro spettava il potere di decidere il compimento delle azioni delittuose della cosca, gli obiettivi da eliminare con gli omicidi di compiere, di dirimere controversie tra gli affiliati, di gestire il controllo del territorio. «Loro – conclude la pentita – avevano potere di vita o di morte sui rivali».
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