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Il presidio ospedaliero di Tropea

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Il pentito Pasquale Alessandro Megna si sofferma sulla figura di Pasquale Quaranta, ergastolano e uomo di fiducia del boss Luni Mancuso, alias “Scarpuni” che faceva il bello e cattivo tempo in ospedale a Tropea. Il collaboratore riferisce inoltre del presunto pentimento di Pasquale Gallone, braccio destro del “mammasantissima” Luigi Mancuso


VIBO VALENTIA – Pasquale Quaranta, esponente di primo piano della criminalità, legato in particolare al boss Pantaleone Mancuso, alias “Scarpuni” faceva il bello e cattivo tempo nell’ospedale di Tropea; la circostanza è narrata dal pentito Pasquale Alessandro Megna, che racconta quanto visto con i propri occhi.

IL PENTITO MEGNA E L’UOMO DEL BOSS: “NELL’OSPEDALE DI TROPEA QUARANTA FACEVA CIÒ CHE VOLEVA”

Siamo nel 2001. Il pentito ha un incidente con la moto e finisce per essere ricoverato presso il nosocomio della città tirrenica. A fargli visita vi era anche “Pasquale Quaranta che mi portava da mangiare, quando non c’era mio padre. Fu lui a farmi mettere in una camera da solo”. Quaranta però – che sta scontando l’ergastolo per l’omicidio di Saverio Carone  (avvenuto il 12 marzo 2004 davanti la posta di Santa Domenica di Ricadi) – non lavorava lì ma questo, racconta ancora Megna “non gli impediva di fare quello che voleva all’interno della struttura”.

Pasquale Quaranta

E così “andò dal dottore a dirgli di togliermi da una camera e di mettermi in una stanza da solo, con una televisione: ha fatto allestire una stanza solo per me e c’erano ad assistermi mia zia Tita Buccafusca e la moglie di Tonino La Rosa. All’epoca – ricorda ancora – ero ragazzino e all’inizio stavo in camera con un vecchietto che si lamentava, per questo gli chiesi di farmi spostare”. Quando andava in ospedale a Tropea, l’uomo di fiducia del boss “diceva agli infermieri ed ai dottori tutto quello che voleva si facesse”, conclude Megna

NON SOLO L’OSPEDALE DI TROPEA MEGNA L’OMICIDIO DI SAVERIO CARONE

Megna riferisco inoltre un aneddoto che riguarda la figura di Quaranta in ordine all’omicidio di Saverio Carone: “Quando è uscito fuori un pentito straniero (Peter Cacko, sicario al soldo di Quaranta), Antonio Mancuso commentava con mio padre Assunto alla mia presenza il fatto che questi avesse dichiarato di avere messo una bomba a “Pignuni” (Domenico Cupitò) nella macchina e di avere eseguito il tentato omicidio di Ivano Pizzarelli (6 giugno 2004 a Tropea) aggiungendo di avere commesso l’omicidio di tale Rosario (poi si corregge e specifica Vincenzo o Saverio Carone – in realtà era Saverio), davanti alla posta a Santa Domenica di Ricadi”.

E Mancuso, commentando questi fatti, avrebbe affermato: “”Noi pensavamo che andava lui o i nipoti  a commettere gli omicidi e invece “avia u zimbaru”, cioè invece di andare Quaranta  personalmente, aveva questo soggetto straniero che mandava a fare gli omicidi per suo conto”, conclude sul punto precisando di non sapere “cosa ci fosse dietro l’omicidio perché la mia famiglia vedeva Luni “Scarpuni” come il fumo negli occhi in quel periodo e Quaranta era vicino a lui”.

LA GESTIONE DEL LATITANTE BELLOCCO

Gregorio Bellocco all’epoca era uccel di bosco in quanto accusato di omicidio, e il collaboratore ricorda che “una sera ci fermarono i Cacciatori mentre io, mio padre, il genero del latitante, Marco Arcuri e Antonio Mancuso, stavamo andando a trovarlo perché questi doveva parlare con Antonio, ma non so dire di cosa, perché proprio a seguito di quel controllo non ci siamo più recati da lui”.

Megna non ricorda quanto tempo fa sia accaduto questo fatto, ma ha nitido in mente che erano “a bordo di una lancia Ypsilon che qualcuno aveva prestato ad Arcuri per fargli cambiare macchina”, aggiungendo che nel cofano della macchina i Cacciatori trovarono un borsone con indumenti che quest’ultimo doveva portare al suocero: “Al momento del controllo eravamo nella strada che da Rosarno porta a Laureana di Borrello. Arcuri al ritorno ci disse che al suocero gli era andata bene, perché ci avevano fermato neanche 10-20 metri prima del cancello dove dovevamo entrare con la macchina e dove era nascosto il suocero”.

Il pentito precisa di aver curato il favoreggiamento della latitanza di Marcello Pesce ma non quello di Bellocco del quale conosceva il figlio Giuseppe fin da piccolo così come conoscevo i Pesce, perché in estate affittavano la casa al mare a Nicotera e con loro ero cresciuto. “Mio padre mi teneva lontano solo dagli omicidi, ma non da queste cose”, commenta.

DAL FIORE AL “PAPILLON” CONSEGNATO AL PENTITO MEGNA

Megna si sofferma poi sulla sua detenzione in carcere e la conoscenza di Simone Pugliese che lo aveva anche nominato capo-cella spiegando come funzionava la “procedura”:  “Una volta quando la persona che stava in posizione di comando nella cella usciva dal carcere, lasciava un ”fiore” ad un’altra persona che era detenuta. Pugliese parlava con me anche di queste cose che, a dire il vero non mi interessavano affatto: mi diceva che oggi non si usa più il termine ”fiore”, ma si usa il termine ”papillon” e aggiungeva che dovevo averlo io. Mi diceva questo  facendo riferimento ad detenuto di nome Antonio Puntoriero che io conoscevo già fuori dal carcere e che era stato condannato in via definitiva per l’omicidio di un ragazzo di colore (Soumayla Sackò), a 22 anni di reclusione”.

In quel momento il “papillon” lo avrebbe detenuto questo Puntoriero ma siccome doveva essere trasferito dal carcere di Vibo in virtù della sua condanna definitiva avrebbe detto a Surace che da lì in poi il “papillon”, e quindi il comando, avrebbe dovuto prenderlo Megna: “Dopo il mio arresto, era trascorsa appena una settimana, già tutti i detenuti venivano da me a chiedermi l’autorizzazione per qualunque cosa. Non ero il più anziano e non ero detenuto lì da tanto tempo, quindi penso che mi abbiano detto che dovessi avere io il “papillon”, per via della mia appartenenza e quindi per la famiglia Mancuso”.

Pugliese avrebbe inoltre raccontato al pentito “che Peppone Accorinti Io aveva pestato di brutto e lo aveva lasciato stare solo grazie all’intervento di Emanuele Mancuso poiché gli aveva detto che doveva lasciarlo stare perché interessava a suo padre, Luni “L’ingegnere””.

BARBIERI E IL FERIMENTO DEL SUO CREDITORE

Altra figura sulla quale il pentito Megna parla nei verbali è quella di Giuseppe Barbieri dal quale ricorda di aver comprato qualche cavallo, lungo la “strada di Mesiano, dove ha una masseria con delle pecore. Se non ricordo male, tanto tempo fa, ha sparato alle gambe di un giovane e questo perché nonostante dovesse dare dei soldi ad Emanuele, che gli aveva venduto lo stereo per la macchina,  e andava spesso a chiedere il pagamento,  lui si stufò e per tutta risposta gli sparò alle gambe”.

IL PRESUNTO PENTIMENTO DI PASQUALE GALLONE

Affronta, Pasquale Megna, anche il presunto pentimento di Pasquale Gallone, braccio destro del boss Luigi Mancuso, riportando quanto riferitogli dallo zio Salvatore Muzzupappa: “ha raccontato che c’era la diceria che si voleva pentire Pasquale Gallone e che la sicurezza l’avremmo avuta a giorni perché Federico Surace”, che tramite un avvocato si stava impegnando per sapere se era vero. “Io non so perché l’avvocato avrebbe dovuto dare questa informazione. La possibile collaborazione di Gallone interessava non solo a mio zio e a Surace ma a tutti, anche alla mia famiglia, per via del favoreggiamento della latitanza di Marcello Pesce. Interessava a tutti perché era stato per diverso tempo con Luigi Mancuso e si era occupato dei suoi affari, quindi sapeva tante cose. Ricordo che poi sempre mio zio mi disse che Gallone era stato male per una colicisti e che per questa cosa avevano pensato che si fosse pentito”.

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