Una delle scene "calabresi" della fiction girata in Puglia
4 minuti per la lettura«AVREI voluto girare in Calabria, come ho fatto due volte con grande sostegno da parte della precedente Film Commission, che funzionava benissimo. Ma in questo caso il supporto lo ho avuto dalla Puglia, mentre in Calabria ci sarebbero stati problemi organizzativi legati alla mancanza di strutture». Giacomo Campiotti, regista della fiction Rai “La sposa”, premiata da ascolti plebiscitari, respinge le critiche secondo cui il film tv presenterebbe un’immagine stereotipata e gretta della terra calabrese. Una polemica sorta dopo la messa in onda della prima puntata e che ruota attorno alla contestualizzazione storica (un 1967 a dir poco barbarico), che appunto dipinge il diavolo più brutto di quanto lo fosse, e soltanto in Calabria.
MA LA FICTION E’ STATA UN SUCCESSO DI AUDIENCE
Già dietro la cinepresa su set calabresi per “Giuseppe Moscati” e “Liberi di scegliere”, Campiotti replica che «Maria è un personaggio bellissimo e positivo, lei al Nord porta la luce». Insomma, senza eufemismi e il più esplicito possibile, si è girato in Puglia perché lì si lavora meglio. Sulle imprecisioni del dialetto, aggiunge: «Abbiamo fatto un lavoro imponente con un coach, Serena Rossi è stata bravissima. Del resto le chiamavano le Calabrie, basta spostarsi di un chilometro per trovare parole e accenti diversi».
Quanto alla storia, il regista passa la patata bollente alla sceneggiatrice Valia Santella, autrice del soggetto ispirato a reali vicende d’epoca (ma non conosce il romanzo di Lou Palanca “Ti ho vista che ridevi”, trama molto simile alla miniserie). Sulle sue fonti, però, non è facile ottenere una ricognizione perché ci spiega che «sono state fatte ricerche su testimonianze orali».
Avendo il set in Puglia, perché era così importante lasciare lo sfondo narrativo in Calabria? La pratica dei matrimoni combinati non era una peculiarità calabrese ma esisteva ovunque. Per avvalorarne la meridionalizzazione (ma certo non la calabresità), Santella cita il celebre film “Bello, onesto, emigrato in Australia…” di Zampa, ma quella storia era molto diversa e la splendida Claudia Cardinale non subiva un esame da mercato di bestiame prima di conoscere il promesso sposo Alberto Sordi.
«Lo abbiamo rappresentato in modo forte – ammette l’autrice, riferendosi alla scena della “valutazione” delle ragazze – ma si tratta di una delle tante aberrazioni compiute da sempre sul corpo delle donne. C’erano allora e ce ne sono ancora oggi, a noi interessava raccontare una storia esemplare per arrivare all’emancipazione e il riscatto. L’autore poi è libero di estremizzare le situazioni all’interno di un racconto di fiction».
Ecco, forse il punto è proprio questo e spiega perché in Calabria a tanti telespettatori la serie è piaciuta, non condividendo le ragioni degli indignati. In fondo “andava così”, quindi dobbiamo accettare che qualcuno ce lo ricordi offrendo in risarcimento il trofeo di un’eroina coraggiosa.
Non è dello stesso parere lo scrittore Santo Gioffré, uno dei primi a disapprovare quella targa “Calabria 1967”, che nella serie di Campiotti avalla equivoci dannosi per l’immagine del territorio. «Da romanziere storico – commenta – io non contesto la fiction ma l’indicazione di un luogo e un periodo precisi senza contestualizzarli ed estrapolando un solo terribile aspetto, che dà l’idea della Calabria come di un mondo perduto in un’epoca irreale».
Com’era, invece, il 1967? «In quegli anni – continua Gioffré – la Calabria viveva la sua epoca migliore, perché le lotte organizzate e l’azione dei sindacati davano una speranza di cambiamento. Ricordo la Pertusola Sud a Crotone, lo sciopero delle gelsominaie, le battaglie per le raccoglitrici di olive, le prime studentesse nei licei. Oggi siamo tornati indietro, ma quello fu un momento di grande fermento politico e culturale».
Tra le correzioni storiche, per Gioffré una nota merita la figura del sensale, tutt’altra cosa da ciò che si vede nella fiction «con donne vendute come carne umana esaminando la dentatura, le forme dei fianchi e la verginità». Autore del romanzo “Artemisia Sanchez”, da cui nel 2008 è stata tratta un’altra fiction Rai di successo, conclude: «La mia contrarietà non nasce da una difesa tout court dell’orgoglio calabrese o dell’onore offeso. Chi al Nord vede queste scene dal divano di casa e ha un pregiudizio, è indotto a pensare che se nel 1967 eravamo combinati così, oggi è normale che ci siano la ‘ndrangheta, la corruzione, la sanità distrutta, i politici eletti con il voto di scambio»
Valia Santella però ha precisato: «Non era nostra intenzione offendere nessuno, al contrario la Calabria che si identifica con Maria è solare, è quella del mare, dei valori, del legame con la terra di origine. Vorrei che si accantonassero le polemiche per concentrarsi sulla fiction, che può piacere o no».
Nelle prossime puntate scopriremo quanti delusi abbandoneranno la visione e quanti seguiranno la sposa Maria verso il suo immancabile lieto fine.
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