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Maurizio Donadoni e Serena Rossi in una scena di "La sposa"

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A MOLTI calabresi non è piaciuta la fiction “La sposa” con Serena Rossi. In onda ieri sera su Raiuno, la prima delle tre puntate del film tv diretto da Giacomo Campiotti ha suscitato più dissensi che gradimento, almeno stando ai commenti postati sui social dai telespettatori delle nostre latitudini. Al contrario, la maggior parte degli italiani ha premiato con ascolti record (quasi sei milioni e il 26,8% di share) la storia della contadina calabrese venduta a un marito veneto.

Cose che accadevano qui alla fine degli anni Sessanta, secondo la sceneggiatrice Valia Santella, già premio David di Donatello.

Peccato che la volitiva Maria-Serena Rossi lasci un imprecisato paesino della Calabria per trasferirsi non a Parigi ma diretta verso una landa altrettanto periferica nella provincia veneta, dove l’attende uno sconosciuto mezzadro sposato per procura. Insomma, anche il profondo Nord rappresentato nella fiction non brilla per modernità e i malumori calabresi si concentrano proprio su questo: perché proporre, nel solco di un racconto sulle lotte contadine e l’emancipazione femminile, un’iconografia così impietosa connotandola soltanto alla Calabria? Un nome, quello della regione, che è ripetutamente pronunciato con disprezzo dal tracotante sensale veneto che “scende” fino alla punta dello Stivale alla ricerca di ragazze giovani, sane e vergini da comprare per conto dell’ignaro nipote, impazzito dopo la scomparsa della prima moglie. Ormai un po’ ce lo aspettiamo, ma la delusione colpisce ugualmente.

L’ambientazione delle scene calabresi (girate però in Puglia) è un’accozzaglia di stereotipi storico-sociali: le capre, i manifesti funebri in piazza, le vecchie vestite di nero che lavorano all’uncinetto davanti alle porte delle case. E poi l’atavico handicap del dialetto, che pure stavolta sbiadisce in un indistinto macondo meridionale dove prevale la sonorità più popolare e mediatica. Di solito ci confondono con i siciliani, qui il timbro è vagamente napoletano (complici le origini dell’attrice protagonista). Zerocalcare docet: nelle arti il linguaggio è terreno di scontro culturale accesissimo. Ma come sempre, il vernacolo calabrese non lo conosce e non lo studia nessuno.

Potrebbe sembrare un cavillo campanilista, invece è una questione di identità – soprattutto per questa permalosissima e orgogliosa gente. E’ vero, in termini di immagine la ‘ndrangheta è una condanna che forse non finiremo mai di scontare. Compensiamo però con terre di bellezza magnifica e un idioma potente e musicale: niente di tutto questo si vede o si scorge nella fiction. Dove purtroppo, persino quando la vicenda si sposta in Veneto, la Calabria è evocativa di arretratezza e inciviltà. E non assolve la facile obiezione del set temporale, ovvero il 1967, epoca in cui – come insegna, per restare in tema cinematografico, il mitico “Bello onesto emigrato Australia…” di Luigi Zampa con Alberto Sordi – era radicata consuetudine l’offerta di donne illibate che si sistemavano per scappare alla miseria del paese nativo e, dopo il matrimonio di convenienza, mandare soldi alle famiglie. In questo caso si racconta di un vero e proprio commercio organizzato, con il rischio che lo spettatore medio pensi a costume specificamente locale: l’agricoltore veneto infatti si fa un migliaio di chilometri per approdare a colpo sicuro proprio nel borgo calabro dove una coppia di anziani papponi (uno è l’attore reggino Saverio Malara) espone la mercanzia delle ragazze da vendere come spose – e si allude persino ad altre compaesane felicemente accasate.

Lo stesso regista Campiotti in diverse occasioni ha ribadito che la trama è strettamente legata alla Calabria e lo dimostra il fatto che, non essendo riuscito a trovare la congiuntura giusta per girare qui, non ha traslocato, insieme al set, pure la storia in Puglia. Ma a quali fonti hanno attinto gli sceneggiatori per documentare in modo così geograficamente netto questa tratta di giovani donne?

Piuttosto “La sposa” ricorda moltissimo la trama di un bel romanzo del collettivo Lou Palanca, edito da Rubbettino, “Ti ho vista che ridevi”. E’ la storia di una contadina di Riace emigrata nelle Langhe, costretta a nozze riparatrici di una maternità irregolare – e c’è anche un “bacialé”, ruffiano combinatore delle unioni miste tra ragazze meridionali e uomini del Nord. Un libro pubblicato nel 2015 e vincitore di molti premi letterari, che però sembra non avere attinenza (nonostante le palesi similitudini narrative) con la fiction di Giacomo Campiotti e non viene citato neppure come ispirazione.

Intanto l’eco della prima polemica arriva da Vieste, nel Gargano, uno dei set della fiction. La Pro Loco ha obiettato che la targa “Calabria 1967” nei primi fotogrammi della puntata potrebbe generare un equivoco sui luoghi effettivi. Ovvero: non importa che la storia sia calabrese, il pubblico deve sapere che quella in realtà è Vieste. O meglio, in una disputa tra poveri, è bene precisare che “quelle cose” non avvenivano in Puglia, a cui però deve restare il merito delle location.

Grattacapi di marketing da maneggiare con estrema cura, come il cinema sa ormai molto bene.

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