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I calabresi hanno (abbiamo) un problema con il dialetto? Sembrerebbe di sì e certamente non lo scopriamo ora, quando però emerge in modo evidente una contraddizione insita nel senso di appartenenza antropologico e culturale dell’idioma calabro. Accade perché la Calabria e pure il suo dialetto sono oggi al centro di una ribalta cinematografica tanto inedita quanto insospettabilmente trendy.

Ebbene sì, la lingua della regione – anzi le lingue, eredità non di un unico territorio ma della geostoria di tante Calabrie – sta diventando di moda, grazie al successo di critica e pubblico di film e serie televisive centrate con specificità su uno sfaccettato e per la prima volta riconoscibilissimo genius loci. Sul grande schermo, dopo una lunga serie di opere dove, complice la tematica malavitosa, l’identità calabrese era sciattamente confusa dentro un generico contesto di atmosfera siciliana, a cambiare rotta in principio era stato nel 2014 “Anime nere” di Francesco Munzi, tratto dal romanzo di Gioacchino Criaco e esempio pioneristico di un dialetto dal vero, credibile e non più imitato dai popolari viciniori siculo, napoletano e pugliese.

Finalmente c’era la nostra lingua e non un trascurato copiaeincolla di quel tradizionale onnicomprensivo lessico meridionale di gusto folklorico, nel quale la Calabria è sempre stata inesistente, ridicola caricatura estranea agli oriundi e fucina di stereotipi per i forestieri. Ma è durato poco e i successivi film e fiction si sono nuovamente adagiati nella comodità di una caratterizzazione nota al pubblico – quindi non la Calabria reale, quella chi la conosce? Meglio rimestarla a colpo sicuro nel calderone con i cabbasisi di Montalbano e “o sang” di Gomorra.

L’ultimo esempio è la serie tv Amazon “Bang Bang Baby”, su cui la piattaforma di streaming sta puntando molto, e a ragion veduta. Il miglior prodotto italiano contemporaneo del genere, un crime drama tutto calabrese tratto dalla storia vera della principessa di ’ndrangheta Marisa Merico. A volergli trovare un difetto, purtroppo è ancora il dialetto. Un vero peccato, perché questa serie è già di culto e rischia seriamente (“rischio” è la parola giusta, parlando di assassini e cosche) di far assurgere i clan calabresi all’iconica fama di Genny Savastano e compagni. Però non è davvero Calabria: non se mamma eroina, originaria del reggino, si esprime con termini come “matrema”, “figliema” o addirittura “nisciunu”.

I calabresi, ovviamente, a questo andazzo non ci stanno. Un’infuocata rovente polemica aveva travolto lo sceneggiato Rai di Giacomo Campiotti, “La Sposa”, record di ascolti ma oggetto di una caterva di critiche, tra cui che si facevano parlare i contadini calabri in una lingua tutta sbagliata (sebbene la produzione assicuri che c’era stato un certosino lavoro di coaching con esperti della materia…) La musica sta cambiando – e grazie al cielo – con le opere scritte e girate in Calabria. Non si tratta di campanilismo: una di queste, “A Chiara”, film vincitore nella Quinzane a Cannes e del David alla migliore attrice per la giovane Swamy Rotolo, è diretta da Jonas Carpignano, regista che calabrese non è ma per girare la sua trilogia ispirata a Gioia Tauro ha vissuto lì per anni, integrandosi con la gente e maturando una profonda conoscenza del territorio. E infatti in questa pellicola, sin dal titolo (la “a” non è complemento di termine ma articolo, il dettaglio della nostra grammatica per definire qualcuno) il dialetto della Piana è esatto – pronunciato, sussurrato, urlato da attori del posto, non professionisti scelti da Carpignano per rafforzare la sua scelta artistica di osmosi tra narrazione e documentario.

Qual è, dunque, il problema dei calabresi con il loro dialetto, tenacemente difeso dagli svarioni fino al cavillo millimetrico delle aree (catanzarese, no, cosentino, anzi no, vibonese)? Se da un lato teniamo con inflessibile precisione al rispetto delle nostre radici linguistiche e andiamo su tutte le furie quando qualcuno le tradisce, dall’altro in molti calabresi cova un sotterraneo complesso di inferiorità. Della diciassettenne Swamy Rotolo tanti, proprio da queste lande, hanno commentato a denti stretti che alla cerimonia dei David la sua inflessione reggina sia stata troppo forte. E tra chi ne faceva una questione di dizione (fuori luogo, la ragazza è al suo esordio nella recitazione e dopo la scuola ha intenzione di studiare e formarsi per intraprendere la professione di attrice), ci sono stati quelli che hanno accennato al fatto che “così passiamo per ignoranti”. Ed eccola, l’onta subdola che mai il calabrese ammetterebbe ma che, sì, lo rode dentro e si manifesta in questi involontari rigurgiti di emancipazione in realtà da noi stessi, ovvero di traumatico rifiuto.

Era accaduto qualche tempo fa anche con una concorrente castrovillarese di “Affari tuoi” contestata dai telespettatori conterranei per la sua pesante cadenza dialettale, al coro social di “se parlava in italiano era meglio”, in un’escalation di ditini alzati sulle tastiere contro presunte etichette di cafoneria evocate dalla signora, che vinse 30.000 euro. Un vuoto di autostima alberga in noi, inutile negarlo. Tralasciando la parlata di toscani e toscanacci (ad esempio la fantastica Drusilla Foer, che proprio ai David non ha fatto nulla per nascondere il dolce accento fiorentino), beneficiari del retaggio culturale della manzoniana risciacquatura in Arno, il cinema è invaso dai dialetti – con in testa il romanesco che imperversa anche dove non c’entrerebbe niente e sarebbe richiesto un semplicissimo italiano (questo sconosciuto, sui set odierni). E poi ci sono i campani, i veneti, i piemontesi, tutti sovrani dai tempi d’oro della commedia all’italiana. Nessun abruzzese, ad esempio, si sognò di gridare alla lesa maestà territoriale per Gina Lollobrigida contadina a piedi scalzi che parlava un (divertentissimo) miscuglio di ciociaro, sabino e aquilano in “Pane, amore e fantasia” di Comencini, ambientato nell’immaginaria Sagliena – che nella realtà era Castel San Pietro Romano alle porte di Roma, ma nel film rappresentava un borgo rurale dell’Abruzzo.

L’acclamata opera prima del cosentino Francesco Costabile, “Una femmina”, dove i dialoghi sono interamente in dialetto con sottotitoli, è stata accolta con disorientamento da qualche spettatore non calabrese che, facendo spirito grezzo, si è chiesto: “Ma che lingua è?”. Ecco, noi una punzecchiatura del genere non la reggiamo. Ci colpisce e ci affonda, ci fa male. Eppure dovremmo ricordarci che in calabrese è stata riscritta persino la Divina Commedia (all’inizio del Novecento lo fece il sacerdote e poeta Giuseppe Blasi di Laureana di Borrello, e nella traduzione di canti scelti si cimentò anche Salvatore Scervini con l’editore Pina Basile). Dovremmo ricordare che il vernacolo calabrese, vissuto da molti di noi come uno stigma di ignoranza, è linguaggio coltissimo – a teatro ne hanno dato prova Krypton e Giancarlo Cauteruccio, che, tra gli altri lavori, insieme a John Trumper trasformò il “Finale di partita” di Beckett in “U jocu sta finisciennu”, portandolo nel 1990 in scena a Mosca. Forse basterebbe essere un po’ più orgogliosi per le cose importanti e meno scioccamente superbi per le dispute cretine.

Ad Amantea un piccolo gioiello culturale come il film festival della Guarimba ha ideato, in collaborazione con la camera di commercio di Cosenza, l’alfabeto emotivo del dialetto calabrese, un progetto che presenta vocaboli del nostro vernacolo attraverso brevi video dove se ne illustrano storia ed etimologia, e soprattutto con la pronuncia corretta, comprese le aspirate e le dentali sonore che associamo all’etichetta di terroni. Una bella idea per conoscerci e ri-conoscerci, senza nessuna segreta vergogna.

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