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FIABESCHI, si sa, è un folletto. Pur superata la soglia degli “anta” e abbandonata la dimensione fricchettona dell’università per la candida immanenza delle calabre radici, resterà sempre un fuori corso della vita. Maturità zero con l’unica saggezza delle citazioni surreali che gli consegnano lo status immortale nelle tavole di Pazienza. E adesso pure nell’incarnazione cinematografica di Max Mazzotta (“Fiabeschi torna a casa”, presentato giovedì a Cosenza), che non rivendica recondite morali della storia: «Non avrei potuto tradire Fiabeschi. Lui rimane fedele a se stesso e anche se ho immaginato il tempo che passa, è uno che assorbe ciò che lo circonda senza rifletterci sopra. Non potrebbe essere diverso da così. Però in questo film fa un passo in avanti. Tutto è racchiuso nella panchina dove la storia inizia e finisce. “Sappi portare la tua croce” vuol dire che hai preso coscienza. Nessuno cambia mai davvero, imparare ad accettarsi permette forse di vivere meglio».
Ancora «intrippato» nel ruolo di regista cinematografico, Max vorrebbe ripetere l’esperienza, e aspettando i primi numeri delle sale («non ho voluto ancora sapere niente», dice a proposito dell’uscita nazionale del film, «preferisco concentrarmi sulle prossime presentazioni», che sono in programma a Roma, Bologna e forse Reggio Calabria), si gode l’affetto del pubblico cosentino: «Si potrebbe pensare che ho giocato in casa, invece per me Cosenza è la prova del nove. Il calore verso “Fiabeschi” è importante, perché so che il pubblico della mia città è particolarmente critico…». Dal palcoscenico al cinema, un’eccitante novità anche per chi il set lo conosce già. Ma dietro la cinepresa cambia tutto: «Nel teatro costruisco il ritmo insieme agli attori gradualmente, durante le prove, poi lo spettacolo entra nella sua seconda vita attraverso l’energia che arriva dal pubblico. Nel cinema bisogna avere subito tutto chiaro».
Le prime recensioni hanno concordato su una debolezza della trama rispetto all’esuberanza scenica e caratteriale del personaggio. «Ero preparato – spiega Mazzotta – al fatto che le cose potessero prendere una piega diversa dalle mie intenzioni. Però io so bene quello che volevo fare: Fiabeschi è un personaggio forte ma rappresenta in realtà un pretesto per raccontare la nostra realtà, i nostri luoghi fisici e interiori, e anche i cliché, che nascondono un fondo di verità antica, che va rispettata senza ridicolizzarla né farne retorica». Un’icona sudista: ecco perchè l’attore e regista ha attinto a piene mani dal dialetto calabrese, “imposto” anche alla brava pugliese Lunetta Savino: «Era fondamentale che tutti parlassero così, il film è costruito sul linguaggio e solo con il dialetto sarebbe stato sincero e reale. Lunetta, Ninetto, loro sono meridionali e si sono immersi con partecipazione in questo nostro universo che altrove non è poi tanto incomprensibile. Vabbè a Belluno ci capiranno poco…».
Vorrà dire che se Fiabeschi tornerà («per ora non ci penso ma lui è un fumetto, può fare tutto e tornare ovunque») anziché nel profondo Sud d’idioma bruzio sbarcherà sulla Luna. E non è detto che pure lì non trovi compaesani.
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