I manifestanti ad Amantea si sdraiano sulla SS 18
6 minuti per la letturaNon è un atto di razzismo quello di sdraiarsi in strada contro l’accoglienza, e la cura, di 13 migranti fuggiti dal Pakistan, dove si lotta ogni giorno per la sopravvivenza e oltre il 60 per cento della popolazione vive con un euro al giorno per famiglia, dove le donne non hanno diritti, dove i bambini muoiono per cause altrove facilmente prevenibili. No. Si tratta di un atto di razzismo obliquo, strisciante.
Peggio, dunque, assai più pericoloso perché accende automatismi mentali perversi dai quali sarà molto difficile liberarsi. E si tratta, se non di ignoranza, certamente di oltraggio alla verità. Rispetto alle più elementari questioni che gravitano attorno al Covid-19, sfuggite letteralmente di mano: primo perché le 13 persone fatte alloggiare nel centro cittadino sono in quarantena, sotto il controllo delle forze dell’ordine, sin dallo sbarco a Roccella Jonica, e quello delle autorità sanitarie, oggi; secondo perché il rischio di contagio per cui ci si è stracciati le vesti è pari allo zero rispetto alla gigantesca incognita che viene, e verrà, dai bagnanti che affollano e affolleranno hotel, stabilimenti balneari e locali senza alcun responsabile accertamento.
Perciò ci stava (naturale, nella loro deformata visione del mondo) se a sdraiarsi ad Amantea, centro turistico tra i più noti del piedino d’Italia, fossero venuti per esempio i neofascisti di Casapound, o i feroci gruppi neonazisti e antisemiti europei. Non ci sta se a bloccare la strada (per fortuna, ancora, un minuscolo drappello) e a sdraiarsi in terra contro il “nemico” pakistano, “straniero e infetto”, come leggiamo in numerosi commenti su Facebook, sia un gruppo di normali cittadini italiani. Non è un caso, tuttavia, che a guidare il dissenso siano piccoli Caifa locali, personaggi di quel brevettato sistema per nulla dissimile dal metodo bravi ragazzi alla Martin Scorsese pronti a salire in groppa al disagio popolare. Peccato che solo per biechi scopi elettorali. Populisti e demagoghi de noantri, perenni comparse di quel sinistro sottobosco del malaffare classico e del malaffare obliquo che ha distrutto l’Italia. E la Calabria, detentrice della cupa leadership delle regioni con più Comuni sciolti per infiltrazioni mafiose.
Il professor Alfonso Lorelli, 80 anni, filosofo, scrittore, storico militante di sinistra e memoria storica di Amantea, è un vivacissimo intellettuale contro. Forse fin troppo rispetto alla sua generosa storia di combattente, se nega, e con forza, l’accostamento tra la protesta e quel subdolo sentire obliquamente razzista. “Non sono d’accordo, si sarebbero stracciati le vesti anche se quelle tredici persone fossero state italiane, perché le ragioni di fondo ci sono, e queste vanno al di là del colore della pelle”. Quali? Il popolo, spiega Lorelli, è arrabbiato, deluso, impaurito, provato, addirittura “contrito nella psiche”. Perché? Amantea è stata bistrattata dalla stampa, a suo dire ingiustamente, per via di quel famoso “scioglimento” (ci chiediamo se sia o meno una notizia il fatto che una amministrazione venga chiusa per infiltrazioni, e se un giornalista abbia ancora il compito di raccontarla senza doversi sottoporre alle rimostranze degli abitanti di una città a rischio contrizione).
Ed è un fatto, bisogna dirlo, che la paura del contagio c’è. Qui ci furono due morti per Covid-19, e la triste vicenda del bidello tornato da Bergamo che contagiò tutta la famiglia è ancora vivissima. Il problema è che questa va rispettata, non cavalcata. Un fatto è anche che la gestione dell’immigrazione, quella dall’Africa, spesso qui fa pendant con lo sfruttamento della manodopera nei campi a quattro soldi giornalieri, e che guarda caso dietro il coordinamento della struttura che in queste ore ospita il gruppo di pakistani asintomatici ci sono le stesse persone che governano Ninfa Marina, l’ex albergo dimesso che da anni alloggia gli immigrati che in quelle terre lavorano come schiavi, e che hanno attraversato quel mare Mediterraneo che lo stesso Lorelli descrisse in un libro come mare del mito e allo stesso tempo della costruzione della società moderna post primitiva e belligerante. Da qui a sdraiarsi per strada per evitare che 13 pakistani vengano ospitati sotto il dovuto controllo per il timore che i turisti scappino, c’è però davvero il Mare nostrum tutto intero.
E poco ci convince il pur affascinante ricordo-contraltare delle celebri barricate del 1919 guidate dal repubblicano Roberto Mirabelli, quando ci si ribellava al dominio dei latifondisti e in opposizione ai soprusi di quanti gestivano la pubblica amministrazione come fosse “cosa sua” (c’è molto di diverso da allora?), o quando nel 1948, nell’immediato dopoguerra, la Camera del Lavoro organizzò lo “sciopero alla rovescia”: una cinquantina di disoccupati ricostruì la gradinata del convento di san Bernardino e poi andò a chiedere la paga alle autorità, finendo però sotto processo. E quelle occupazioni delle terre nel ‘53 e successivamente nel ‘72 per modificare i rapporti agrari di produzione tra proprietari e contadini, e per una più equa ripartizione, e del ‘69 delle case popolari costruite per i lavoratori e mai assegnate, quando a difesa dell’iniziativa scese in campo addirittura l’allora presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, sono storia ben diversa da quella che oggi si scrive, ahinoi, in questa fettina di Italia.
In un recentissimo colloquio con l’Osservatore Romano, l’economista e premio Nobel per la Pace 2006 Muhammad Yunus spiega al direttore del quotidiano della Santa Sede, Andrea Monda, quanto sarebbe folle l’idea di tornare a un vecchio mondo “inospitale e terrificante”, dove la ricchezza è concentrata soltanto da una parte a discapito di milioni di persone. Ci permettiamo di divergere in merito all’ottimismo secondo cui sarebbe folle fare marcia indietro, quando questa è stata già ben innescata. Dove sta il “nuovo” mondo ospitale, se ovunque spirano polari venti di intolleranza, di respingimenti, compresi quelli che minaccia di mettere in atto la governatrice della Calabria, Jole Santelli, preoccupata dell’immagine estiva della regione quando, esempio tra gli esempi, non esiste una sola ispezione tra la bolgia delle movide in città e al mare? Così mentre gli stessi amici di Matteo Salvini (che non ha mancato di parlare, e a spiovere, del caso Amantea), come Geert Wilders, leader nazionalista olandese, si distinguono al grido di “nemmeno un centesimo all’Italia” (caro Salvini, siamo sempre a sud di qualcuno), tra la parte di quella bella Italia al seguito dei nuovi gerarchi di cartone che si dice antirazzista indignandosi quando le fai notare che non è esattamente così, c’è anche chi si fregia di ignobili storie di xenofobia ogni santo giorno dell’anno 2020 del Signore post quarantena, la Grande Occasione perduta.
Per esempio a Milano, dove due onesti italiani che pagano le tasse e la domenica comprano le pastarelle dopo l’invito ad andare in pace che la messa è finita, hanno pensato che sarebbe stato giusto prendere un giovane venditore di rose, schiavo tra gli schiavi del mondo, e gettarlo dritto nell’acqua fetida dei Navigli, vantandosi del gesto sui social, diventati campo di sterminio virtuale dell’era moderna. Nel frattempo ad Ardea, nell’hinterland romano, un altro abominevole individuo se l’è presa con Beatrice Ion, atleta di punta della Nazionale paraolimpica di pallacanestro. Al grido di “stranieri del cazzo, andate via” e “handicappata di merda”, la nostra stella del basket in carrozzina ha visto sua madre minacciata e suo padre, che la stava difendendo a causa di un parcheggio, preso a testate e pugni accasciarsi a terra con zigomi e denti rotti. Beatrice, 23 anni, vive da 16 in Italia ed è nata in Romania, studia all’università ed è una delle azzurre olimpiche più note. Splendida cittadina italiana, splendida cittadina del mondo. Quel mondo sporcato, infettato, distrutto – nella Storia, e oggi – da quattro dannosi imbecilli.
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