La fonderia di Mongiana
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Lo storico Mammone smonta il mito dei Borbone. La fonderia di Mongiana al centro del revisionismo sul Risorgimento
C’è molta Calabria nelle controstorie sul Risorgimento smontate dallo storico Andrea Mammone nel suo “Il mito dei Borbone”, edito da Mondadori. Mongiana, considerata come emblema di un’età del ferro perduta, insieme a Gaeta, mitizzata per la resistenza all’assedio sabaudo, è, infatti, uno dei simboli di quella rilettura della storia che vede nella spedizione garibaldina e nell’annessione del Regno delle due Sicilie le cause della distruzione di una Borbonia Felix. Il Risorgimento, insomma, come peccato originario e principale prodotto di uno Stato usurpatore che ha depredato il Sud e costretto i meridionali all’emigrazione di massa.
Dopo aver passato in rassegna una serie di volumi revisionisti che culminano nel noto “Terroni” di Pino Aprile, Mammone, docente di storia all’Università della Sapienza che ha insegnato per oltre un decennio alla University of London, dimostra come, con un uso poco scientifico delle fonti, e rilanciando tesi neoborboniche, sia nata l’equazione Risorgimento uguale colonizzazione nordica. Un racconto lacunoso che, spesso, considera i briganti come eroi resistenti e trascura le cause dell’arretratezza culturale ed economica del Regno delle Due Sicilie. Distorsioni che si mescolano con tendenze neopopuliste odierne e finiscono con lo scaricare su un nemico esterno la responsabilità dei mali del Sud, offrendo soluzioni facili a problemi complessi. «Povera Calabria» è, non a caso, il titolo di uno dei capitoli che decostruisce analisi superficiali su cui, tra l’altro, si basa la narrazione di Mongiana come simbolo di grandezza di una regione che non aveva alcuno sviluppo industriale.
Il MITO DEI BORBONE: IL RUOLO DI MONGIANA SECONDO MAMMONE
Il paesino di Mongiana ha un ruolo importante, suo malgrado, nella narrazione proposta dalla galassia revisionista, perché la produzione metallurgica in quella zona montana e sperduta rappresenterebbe una controprova del fallimento dell’unificazione d’Italia. La fonderia creata nel 1771 era un vanto per i reali, tanto che nel 1813 fu creata anche una fabbrica di armi e lo stabilimento nel 1813 passò sotto il controllo del ministero della Guerra. Un migliaio gli operai impiegati, in un contesto che sembrava favorire la produzione siderurgica perché caratterizzato dalla presenza di fiumi, di miniere di ferro, di alberi necessari per la produzione del carbone. Miglioramenti furono peraltro apportati durante gli anni “francesi” della Repubblica napoletana con Murat sul trono di Napoli. Il resto lo fecero politiche protezioniste per cui dalla fabbrica di Mongiana l’esercito borbonico riceveva, in gran parte, la sua dotazione di armi.
Qualche anno dopo l’unificazione della Penisola, nel 1864, lo stabilimento cessò la produzione e nel 1874 fu messo all’asta dal governo unitario. Onerose commesse statali erano ormai venute meno e l’impianto non reggeva la concorrenza internazionale. Mongiana, dove si moriva prima di 40 anni e le malattie della vista erano diffusissime, diventa un «locus della nostalgia e del rancore» nella versione revisionista di Aprile. Citando il parroco che racconta che ancora oggi a Mongiana un terzo dei maschi si chiama Ferdinando, in onore ai reali sconfitti da Garibaldi e alla devozione al re che dette al paesino una ragione di esistere,
LA TESI DI APRILE
Aprile propone una tesi secondo cui il distretto minerario e siderurgico, a suo dire, più ricco non solo del Meridione ma dell’Italia intera non poteva sorgere in quel luogo in quanto l’industria doveva essere solo settentrionale. In una regione ancora oggi gravata da un alto tasso di emigrazione e di disoccupazione giovanile fra i più alti d’Europa è naturale, osserva Mammone, che il mito di una presunta Ruhr calabrese e della perdita di una grandeur prenda piede, anche per la salvifica funzione di glorificazione che sembra esercitare. Forte anche il richiamo in altre aree della Penisola di una controstoria amplificata dall’orgoglio meridionale tanto valorizzato nei convegni dei neoborbonici. Una controstoria che tende peraltro a considerare il Regno delle Due Sicilie come un blocco monolitico.
Mongiana come una sorta di Detroit della Calabria o una Silicon Valley è soltanto una di quelle esemplificazioni ripercorse in un libro che smonta un po’ di sogni di qualche neoborbonico. Lo storico ricorda, innanzitutto, che il sito di Mongiana, in una Calabria allora troppo isolata, non aveva una vocazione internazionale. La ghisa inglese era più economica e la produzione più tecnologicamente avanzata in quegli anni era nell’Inghilterra che per prima aveva conosciuto la Rivoluzione industriale. Marx ed Engels, insomma, non andarono nelle Serre calabresi a studiare le dinamiche del capitalismo. A ciò si aggiungano le politiche neoliberiste e moderate dei governi unitari che non adottarono misure in grado di contrastare la concorrenza straniera. Mongiana non può pertanto essere considerata come un unicum slegato dai processi socio-economici e politici.
IL MITO DEI BORBONE: PER MAMMONE TRASCURATE CAUSE DI ARRETRATEZZA
Ma i neoborbonici omettono anche di considerare il contesto infrastrutturale, fatto di vie poco moderne e sentieri di campagna. Dalle miniere di Pazzano i materiali venivano trasportati più che altro su mulattiere. In una relazione del 1864 si parla di strade abbozzate e inaccessibili ai carri. In quegli anni la gran parte della rete viaria calabrese era percorribile solo da quadrupedi, e anche il commercio era scarso perché ritenuto rischioso a causa degli assalti dei briganti. Mammone ricorda che lo scrittore e patriota Luigi Settembrini, quando nell’estate 1835 vinse il concorso per la cattedra di eloquenza al liceo di Catanzaro, impiegò giorni per arrivare da Napoli.
Nella storia negata dei neoborbonici c’è poco spazio per il regolamento del 1830 che suggeriva che nelle province del Regno strade e bonifiche erano opere da realizzare “in economia”. Si sorvola anche sul fatto che le spese fossero a carico delle amministrazioni locali, mentre petizioni di consigli comunali calabresi e lucani volte a ottenere collegamenti ferroviari rimanevano inascoltate. Nel 1833, in occasione di una visita del re nella Calabria Citra, corrispondente più o meno all’attuale provincia di Cosenza, le amministrazioni erano preoccupate per la tenuta stessa delle strade.
LA SOFFERENZA DI ALTRI SETTORI ECONOMICI
Soffrivano anche gli altri settori, come l’agricoltura, che secondo molti osservatori era addirittura allo stadio “preistorico” a causa di proprietari terrieri retrogradi e oppressori. Il latifondo, tra i principali ostacoli alla modernizzazione e teatro di abusi feudali ai danni dei braccianti, fu uno dei principali lasciti della politica borbonica.
Mammone ripercorre anche i moti popolari che tanto preoccupavano i Borbone. Dal 1848 al 1851, nei luoghi maggiormente disagiati, condizioni di miseria e soprusi atavici portarono a occupazioni delle terre in mezza Calabria. Le sommosse erano in centri piccoli e grandi come Rossano, Crotone, San Fili, Caulonia, Rogliano, Scilla, San Giovanni in Fiore, Amendolara, Albidona e altri. Ma non erano solo moti costituzionali, erano moti «per il pane», scrive Mammone. Lo storico ricorda anche che la pubblicistica calabrese era molto spesso schierata per la causa nazionale. Vincenzo Padula, direttore del Bruzio, nel 1864 scriveva che quello del Risorgimento era il secolo delle “nazionalità” e dell’uguaglianza dei popoli.
Insomma, il Regno crolla perché delegittimato e incapace di modernizzare, come accaduto ad altri regni italiani ed europei. Non regge la ricostruzione di una “Mecca borbonica” che si proietta nel passato attingendo al mito di una presunta, eroica resistenza di Francischiello che combatte a Gaeta, glorificando un mondo Napoli-centrico e sottovalutando il ruolo di una Chiesa reazionaria che aveva molta influenza sulla monarchia e usufruiva di politiche di esenzione.
IL MITO DEI BORBONE: LA RETORICA ANTIRISORGIMENTALE
L’esaltazione dell’epopea borbonica si contrappone ai «custodi del bidone masson-accademico», come dice Aprile, che deride perfino lo storico Alessandro Barbero accusato di essere uno «scalmanato medievalista» se osa contestare la retorica antirisorgimentale. Mammone ripercorre volumi e convegni celebrativi di tesi neoborboniche che utilizzano perfino il calcio e lo scudetto del Napoli in funzione identitaria. Il “Corriere della Sera” diventa la “Padania della Sera” se ci scrive lo storico della Sapienza, sbeffeggiato perfino per il suo cognome (“e si vene ‘o mammone chiudimm ‘a porta”, citazione dal grande Pino Daniele che nei suoi primi brani attingeva alla tradizione popolare). Mammone non si limita a rispondere col “Pesce d’Aprile” ma spiega che la ridicolizzazione delle competenze, in un tempo caratterizzato da fake news di cui si alimenta anche la politica, deve essere denunciata e contrastata, specie se le “credenze” dei nostalgici dei Borbone rischiano di diventare esse stesse piattaforma politica.
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Bell’articolo.
Ma si continua a non capire perché, se la Calabria borbonica era tutta questa merd@, sono venuti ad occuparci e spogliarci di tutto (quel ‘pochissimo’ che avevamo).
L’interrogativo storico non è mai stato risolto.
Diteglielo a Mammone…
Sarei grato al prof. Mammone se ci spiegasse, una volta per tutte,come è nata la cosiddetta Questione Meridionale e come, con l’ Unità d’Italia, dopo 160 anni, le condizioni socio-economiche del Sud sono sempre come ai tempi dei Borboni! Grazie!