5 minuti per la lettura
IO non mi sento italiano, ma per fortuna e purtroppo lo sono. Ho giocato un po’ con i primi versi di un capolavoro di Giorgio Gaber, del quale proprio all’inizio di questo 2023 ricordavamo il ventennale della scomparsa. Una canzone scritta con il grande Sandro Luporini, artista e suo paroliere storico, che mi permette di raccontare alcune impressioni su tutta l’operazione che, un altro grande artista, Franz Cerami, ha concluso nel Comune di Corigliano-Rossano.
Un progetto co-finanziato dalla Regione Calabria dopo che il Comune guidato da Flavio Stasi aveva vinto un bando ed aveva pensato di chiamare uno dei più importante digital artist del nostro paese, famoso in tutto il mondo, conosciuto per i suoi lavori ed installazioni da Yerevan in Armenia sino a San Paolo del Brasile.
Motivo? Raccontare un cambiamento. Difficile come tutti i cambiamenti, nessuno può negarlo, ma importante e necessario. Lo scrittore Anatole France, famose per la sua sagacia ed ironia, oltre per essere stato insignito della Legion d’Onore e del Premio Nobel nel 1921 scrisse: “Se non cambiamo, non cresciamo. Se non cresciamo, non stiamo davvero vivendo.“ Parole che potrebbero essere trovate nel patrimonio della coscienza di alcuni saggi delle religioni orientali ed invece appartengono ad un distinto gentiluomo vissuto fra il diciannovesimo e ventesimo secolo.
Ho negli occhi la bellezza dei volti di Limen Portraits, cittadini della nuova Città di Corigliano-Rossano, rielaborati con tecniche artistico digitali e poi proiettati in un flusso di luci e colori sulle mura di Torre del Cupo a Schiavonea, con l’umidità del mare lì vicino che imbeveva le nostre giacche a vento, mentre la musica elettronica faceva da commento sonoro. Ed erano sempre loro. Gli stessi che ogni giorno vivono la città di Corigliano-Rossano, nata da un referendum consultivo che ha unito realtà fra loro, certamente, diverse per storia e altre ragioni, ma che hanno deciso di tracciare un nuovo percorso.
Giorni dopo ci siamo spostati all’Abbazia del Patire, che risale al 1905 per vedere delle proiezioni digitali su quelle pietre che hanno vissuto, odorato, mille anni di storie. Ho visto un qui e ora, un hic et nunc – e qui ancora una volta si unisce la tradizione orientale con quella plautina e della cultura latina – dove elaborazioni digitali scorrevano sotto una luna bianca mentre la colonna sonora era fatta anche di canti arbëreshë rimodulati con tecnologie digitali. Un lavoro che è stato chiamato in maniera provocatoria Denzolu.
Esatto, vuol dire lenzuolo, quello che le due comunità in alcuni momenti del passato la città del Codex Purpureus e dei cento palazzi nobiliari e quella del millenario castello ducale, fra i più dell’Italia meridionale, mettevano per non guardarsi. Proprio l’Abbazia del Patire è stata nei giorni della proclamazione ufficiale della città dopo il referendum, visto come luogo di unione e non più di divisione. Come luogo di “appartenenza”, parola centrale, a mio avviso molto di più della sbandierata identità, che è meccanismo di costruzione culturale, di selezione e scelta, spesso anche inconsapevole, e che va dal cibo alla musica, ai colori e alle parole che amiamo, ma soprattutto che siano nostre. Questo non significa che dovremmo rifiutare il resto dell’universo e delle possibilità che ci sono di fronte.
Io non sono nato in questa parte di mondo. Sono nato a Roma, da una famiglia con una tradizione fortemente romana, sono un romano di ottava generazione in una città che non è più una città, ma una conurbazione – seconda solo a Londra in Europa – composta da 4 o 7 città (il dibattito fra urbanisti e architetti è aperto). La mia identità è romana? No. La mia appartenenza? Sì. Io appartengo a Roma e Roma appartiene perché per me appartenere è un termine totalmente scevro dal concetto di possesso ma che recupero fortemente il pensiero di origine, di far parte, anzi di “essere parte”.
Eppure, la mia identità non è solo Roma, anche perché adoro la carbonara ma detesto i carciofi alla giudia, caposaldo della cucina capitolina. E allora? Non sono più nato e vissuto in una delle città più antiche e importanti del mondo? Oggi si sente parlare di oikofobia (la grafia più esatta sarebbe col la K visto che la parola casa in greco si scrive oikos). Un pensiero che vedrebbe la vergogna e la paura per le proprie origini. Io contrappongono quello di OIKOFILIA: Io scopro me stesso scoprendo il resto del mondo, partendo dalla mia “casa”, dal mio ambiente, da ciò che mi appartiene. Io sono me stesso solo confrontandomi con l’Altro, la differenza, la diversità. Io non ho paura.
Così costruisco la mia identità che è fatta di amore per la musica irlandese, il sushi giapponese, la letteratura turca e migliaia di altre cose. Le origini, la mia vera APPARTENENZA, la porto dentro, è viva e non mi impedisce di incontrare l’alterità. Franz Cerami ci ha mostrato il risultato di elementi che appartengono e vengono da una terra plurimillenaria. Godere della bellezza e della trasformazione ad opera di nuovi linguaggi non assolutamente cancellato questi elementi. Anzi! Li ha esaltati nel confronto. Solo chi ha paura non vuole affrontare l’altro, che poi come diceva Jung, uno dei pensatori più influenti dell’ultimo mezzo millennio è affrontare sé stessi.
Ho avuto modo di conversare con Franz Cerami in varie occasioni e di intervistarlo per questo giornale. Affrontare un cambiamento attraverso i linguaggi dell’arte e della contemporaneità è un modo per riflettere su chi siamo, su quali cose ci appartengono e su chi vogliamo essere, cioè su cosa far diventare nostro elemento di identità. Il resto è spesso un tentativo maldestro di vedersi più belli allo specchio e non negli occhi di un Altro.
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA