Elsa Tavella, mamma di Alessandro Vangeli
INDICE DEI CONTENUTI
Un ultimo gesto di pietà: la restituzione del corpo di quei figli amati e scomparsi nel nulla. Corpi ormai senza vita che sono carne della propria carne delle donne che li hanno partoriti, e che, se ritrovati, sarebbero ancora capaci di parlare e di raccontare violenze inaccettabili.
Madri costrette a chiedere in lacrime agli aguzzini delle proprie creature, che venga risparmiata loro la peggiore delle condanne: non sapere dove sono stati buttati i loro figli, se in fondo al mare, seppelliti in un luogo impervio e desolato o dati in pasto ai maiali, perché di loro non rimanesse più traccia.
«Almeno restituiteci i loro corpi. Non chiediamo altro. Anche se morti, li rivogliamo. Sono figli nostri, li abbiamo messi al mondo ed è inaccettabile non sapere più dove siano». Sono tante le mamme calabresi in attesa di giustizia per la morte dei loro figli, vittime innocenti di una ‘ndrangheta che uccide ragazzi colpevoli di aver infranto, inconsapevolmente, i codici mafiosi. Ma tra loro ce ne sono alcune, come Elsa Tavella di Scaliti di Filandari nel Vibonese, madre di Francesco Vangeli, e Immacolata Guzzo di San Giovanni in Fiore, madre di Giuseppe Loria, che dei loro ragazzi non hanno più neanche un corpo sul quale piangere.
Francesco Vangeli
Francesco Vangeli, 25 anni, piccolo imprenditore di Scaliti di Filandari, scomparve nel nulla la sera del 9 ottobre del 2018. Solo la sua auto, una “Ford Fiesta” divorata dalle fiamme, fu ritrovata la mattina dopo, nei pressi dello svincolo autostradale delle Serre. All’interno c’era anche il cellulare del ragazzo. A sua madre, prima di uscire, aveva detto che sarebbe andato a fare un giro e sarebbe ritornato presto. Solo il giorno dopo Elsa venne a sapere che Francesco avrebbe dovuto recarsi prima a casa di un cliente per prendere delle misure e poi dalla sua fidanzata. E l’attenzione degli investigatori si orientò immediatamente verso la burrascosa relazione sentimentale che Francesco aveva con una ragazza della zona, contesa da un uomo molto vicino ad ambienti criminali.
Su un cellulare che la sorella Mariangela aveva prestato al giovane, furono trovate persino minacce di morte se non si fosse allontanato dalla giovane donna.
«Quando Francesco tornava a casa, con lui arrivava la vita – racconta Elsa ricordando il figlio -. Era molto legato a me, mi osservava con attenzione ed era sempre molto premuroso. Da quando avevo messo qualche chilo di troppo, mi prendeva affettuosamente in giro chiamandomi “mamma cicciona”. E mi salutava con queste parole sia quando entrava in casa e sia quando usciva. Era un ragazzo tenero Francesco, a volte l’ho visto anche fragile davanti alle situazioni che viveva e per questo cercavo di seguirlo, di capire le sue emozioni e di vigilare con discrezione. Ma tutte le mie attenzioni di madre non sono servite a sottrarlo a conflitti personali che lo preoccupavano esasperandolo fino all’inverosimile. Negli ultimi tempi era cambiato, era meno presente, meno attento a tutto ciò che fino a poco tempo prima era in cima ai suoi pensieri. E comunque cercai di non lasciarlo mai solo. Ma i suoi turbamenti erano evidenti e anche, a volte, il suo smarrimento. Mio figlio amava molto le moto da terra e le macchine ma ha sempre rispettato il timore che nutrivo per questi mezzi e non ha mai fatto nulla che potesse farmi preoccupare. Era molto legato ai suoi fratelli e a sua sorella. Era un piacere vederli scherzare e ridere insieme. Aveva tanti amici Francesco, e insieme a loro condivideva tutto il suo tempo libero. Ripensare oggi alla nostra vita insieme, mi crea un dolore profondo perché sono consapevole che quei giorni non torneranno più. La sua assenza ha devastato tutte le nostre vite».
Elsa, all’inizio, sperò che suo figlio potesse tornare da lei ma con il passare dei giorni comprese che al suo ragazzo era accaduto qualcosa di terribile e per questo, rivolgendosi ai suoi carnefici, chiese loro che gli venisse almeno restituito il corpo. E questo appello lo ha ripetuto innumerevoli volte con la speranza di un gesto di pietà verso una madre o confidando in un pentimento anche tardivo. Ma finora nulla di tutto questo è accaduto, nonostante la condanna a trent’anni di reclusione per l’assassino di suo figlio. Un corpo parla, racconta ciò che è stato, ed è per questo che deve essere annullato, dimenticato. Ma a una madre non si può chiedere tanto. Elsa continua a rivendicare quel corpo amato, familiare, e sempre lo farà finché avrà voce.
Giuseppe Loria
«Rivoglio mio figlio e non avrò pace finché non me lo restituiranno». È un appello rabbioso e disperato quello di Immacolata Guzzo, la mamma di Giuseppe Loria, il ragazzo scomparso il 5 settembre del 2005 da San Giovanni in Fiore, in provincia di Cosenza, mentre rientrava dal lavoro.
Sedici anni di silenzio interrotto soltanto dalle rivelazioni di un pentito che avrebbe confermato la morte del ragazzo a opera delle cosche silane, senza fornire indicazioni sulle modalità e il luogo dove sarebbe stato sepolto. E Immacolata ha appreso tutto dai giornali, nel corso di una mattinata di lavoro uguale a tante altre, quando qualcuno, timidamente, le ha chiesto maggiori particolari. E quella piccola speranza che la teneva in piedi, si è improvvisamente spenta, impedendole persino di parlare. E accanto al dolore è emersa la rabbia per non essere stata messa al corrente dai magistrati che hanno raccolto le confidenze del pentito, di quanto stava avvenendo sottolineando, laddove ce ne fosse bisogno, che quel ragazzo di cui si parlava era suo figlio, quella parte di lei che le è stata brutalmente strappata e che era rimasta per molti anni avvolta nel buio più fitto.
Ora che sa, però, rivuole il suo Pino. «Non si può dire e non dire – afferma con convinzione -. Rivoglio mio figlio», per interrompere quella condizione di sospensione interna che l’ha lentamente estraniata da tutto impedendole di provare emozioni e di sentirsi parte attiva di una comunità.
Immacolata ricorda il suo Pino – così lo chiamava – il bel ragazzo solare che era, un giovane che amava la vita e che era apprezzato da chi lo conosceva, soprattutto dalle ragazze che lo chiamavano continuamente. Aveva avuto un problema di tossicodipendenza ma ne era uscito, era stato persino in una comunità per farsi aiutare. E con la mamma aveva sempre avuto un rapporto speciale. Era ben consapevole di averla fatta soffrire e cercava di non farla preoccupare ancora. La chiamava continuamente, la metteva al corrente dei suoi spostamenti, voleva restituirle quel poco di serenità che la vita le aveva negato. E pino per Immacolata era l’uomo di casa, l’uomo della sua vita, il suo sostegno e il motivo che la spingeva ancora ad uscire ogni mattina per recarsi al lavoro e programmare la sua vita.
«Giuseppe era un cittadino di San Giovanni in Fiore – continua Immacolata -. Non è scomparso da un altro luogo. Ma nessuno ne ha voluto sapere, nessuno ha mai fatto sentire la sua voce per lui. Mai è stata organizzata una fiaccolata per richiamare l’attenzione sul suo caso. Eppure mio figlio non ha mai fatto niente. A me hanno tolto la cosa più bella della mia vita e ho dovuto leggere sui giornali che mio figlio era un caso di lupara bianca e che lo avevano ammazzato e buttato in un burrone».
Immacolata è stata lasciata da sola con il suo dramma personale, senza che nessuno della sua comunità si facesse carico di sostenerla e di aiutarla in un momento molto difficile della sua esistenza. «Solo chiacchiere», precisa più volte, spiegando che nonostante i suoi appelli nessuno ha accolto il suo grido di dolore mostrando interesse per la sparizione del figlio.
«Volevo andare di nuovo dal procuratore Gratteri ma le mie condizioni di salute non me lo hanno permesso – racconta Immacolata -. Non ce la faccio più a stare chiusa tra quattro mura ed aspettare dopo aver saputo alcune cose. Come deve vivere una mamma dopo aver appreso che il proprio figlio è stato ucciso. Voglio la verità e rivoglio almeno il corpo di mio figlio, lo pretendo. Dopo tanta sofferenza che almeno me lo restituiscano. E che fine ha fatto la persona che ha preso mio figlio quella sera, per dargli un passaggio? Perché non parla e pone, finalmente, fine al mio martirio? Le persone che hanno ucciso Giuseppe non hanno anche loro dei figli? Possibile che non riescano a capire cosa vuol dire vivere il dolore per un figlio che non hai più? A me avrebbero potuto fare tutto ma mio figlio non me lo dovevano toccare».
Pasquale Andreacchi
E c’è una mamma, Maria Rosaria Miraglia di Serra San Bruno, che del figlio Pasquale Andreacchi di 18 anni, scomparso la sera dell’11 ottobre 2009, è riuscita almeno a trovare qualcosa: pochi resti recuperati qualche mese dopo in un cassonetto della spazzatura e lungo un sentiero di montagna da alcuni cacciatori, che le sono stati consegnati in una scatola di scarpe.
«Pasquale era un gigante buono, un ragazzo timido che mai avrebbe fatto del male a qualcuno», racconta Maria Rosa che ancora, dopo tanti anni, non riesce ad accettare di non avere più accanto suo figlio, quel ragazzo alto più di due metri con l’aria timida e gli occhi teneri.
Maria Rosa lo aveva avuto in tenera età e con lui era cresciuta, aveva ricreato legami affettivi veri di cui aveva disperatamente bisogno dopo la scomparsa della madre che l’aveva lasciata orfana ad appena sette anni.
Pasquale rappresentò il passaggio precoce dall’adolescenza all’età adulta ma lei, nonostante tutto, riuscì a conservare i suoi tratti innocenti e la capacità di gioire per piccole cose. Era una madre-bambina che guardava suo figlio con timore ma anche con gli occhi pieni di incanto. E con quella creatura che le cresceva tra le mani, aveva instaurato un rapporto speciale, unico. Guardavano nella stessa direzione e assaporavano le stesse gioie.
«Il mio Pasquale era un ragazzo tranquillo, timido, educato – racconta Maria Rosa -. Non aveva tanti amici e non usciva neanche di sera. Aveva una sua naturale riservatezza che lo rendeva diverso da tutti gli altri. Era un figlio che non ci ha mai dato problemi. Lavorava per aiutare la famiglia e si adattava a tutto: ha fatto il muratore, tagliava la legna, vendeva la frutta al mercato e soprattutto lavorava con i cavalli, la sua grande passione. Pasquale si innamorò di un cavallo che avevano alcuni suoi amici. Era bianco e nero e si chiamava Hidalgo. Ci chiese più volte di comprarlo ma non eravamo nella condizione di farlo. Quando compì 18 anni, però, era il 13 settembre del 1990, suo padre e io decidemmo di rendere reale quel sogno che coltivava da tempo, e facendo molti sacrifici lo acquistammo per lui. Dopo la festa di compleanno con gli altri tre fratelli, lo portammo fuori e gli facemmo trovare Hidalgo. Era felice come un bambino e mai avremmo potuto immaginare che da lì a qualche giorno, non solo quel cavallo gli sarebbe stato rubato ma che addirittura anche lui sarebbe scomparso per fare una fine atroce».
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA