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Barbara Nappini

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BARBARA Nappini, presidente di Slow Food Italia, sarà in Calabria oggi (26 marzo 2025) e domani per presentare il suo libro La natura bella delle cose. Prima donna alla guida del “movimento del cibo” racconta che a un certo punto ha deciso di cambiare vita e di passare dal lavoro in una multinazionale all’agricoltura, il tutto è partito dal fare il pane in casa. Poi è arrivata la consapevolezza che il sistema alimentare è il luogo «in cui si decidono le sorti del modo e il cibo è lo strumento di cambiamento culturale e politico».
«Se il cibo non è per tutti, non è né buono, né giusto» è una delle frasi che ama ripetere.

«La nostra definizione di cibo di qualità ormai da decenni è quella di buono, pulito e giusto. Una definizione molto efficace che in tre parole dice molto. Buono afferisce a una esperienza gradevole, pulito perché non impatta negativamente sul pianeta e giusto affinché nessuno sia sfruttato nell’intera filiera. Da qualche anno abbiamo aggiunto il per tutti. E su questo per tutti, soprattutto nei quattro anni della mia presidenza in Slow food, abbiamo insistito molto. Perché, se non sarà per tutti non sarà né buono, né pulito e nemmeno giusto. Si introduce in questo modo, in maniera molto forte il tema dell’equità di cui non si può non parlare quando si tratta di cibo. Viviamo in un pianeta in cui si spreca moltissimo cibo eppure un miliardo di persone non mangia con regolarità e allora il cibo si lega al tema dei diritti umani».

Dalla comoda vita in città, a Firenze, e da un lavoro in una multinazionale della moda, ha deciso di andare a vivere in campagna. Qual è stata la molla che l’ha convinta?

«È una molla che si è caricata durante i tredici anni in cui ho fatto una esperienza lunga e consolidata, non solo lavorativa, in un contesto internazionale e anche glamour. All’inizio il mio lavoro è stato molto stimolante, ho studiato lingue quindi lavorare con l’estero mi piaceva molto. Piano piano quando ho iniziato a imparare meno dal lavoro e avrei dovuto scegliere se fare dei passi nella costruzione di una carriera manageriale, ho iniziato a pensare ad altro e a quanto fosse sostenibile il mio stile»

Quindi è partita dal cambiare il suo stile di vita?

«Sono partita a ragionare sul come mi approvvigionavo. E ho iniziato a fare alcune piccole azioni banali: come quella di fare il pane in casa che mi ha portato a scoprire la lievitazione naturale, la pasta madre e le farine e come queste vengono trattate. Ho anche iniziato a ragionare su come mi muovevo in città per andare a lavoro. La considerazione è che io peso cinquanta chili e spostavo una macchina che pesava una tonnellata. E quindi ho iniziato ad andare a lavorare in bici. E dopo due anni di piccole azioni di questo tipo sono arrivata alla conclusione di voler lasciare il lavoro e di studiare agricoltura, vendere la casa di Firenze e trasferirmi in campagna per fare la contadina».

Le persone intorno a lei che vedevano questi cambiamenti come hanno reagito?

«Mi sono resa conto che i miei piccoli cambiamenti avevano prodotto anche dei cambiamenti intorno a me. Per esempio nella mia azienda, quando ho iniziato ad andare a lavorare in bicicletta, non c’erano altri che usavano quel mezzo e quando mi sono dimessa c’erano tre o quattro biciclette altre alla mia. E quando ho iniziato a fare il pane, ho iniziato anche a distribuire tantissima pasta madre, c’era tanta gente che si era incuriosita e hanno provato anche loro a farlo in casa. Questo diventa il filo rosso del mio libro: partendo dalle piccole cose, normalizzando delle scelte che sembrano minute ma che in realtà si riverberano in modo tale che escono pure dal nostro controllo e rientrano nella dimensione collettiva influenzando anche gli altri, si spera positivamente. Quando si è sparsa la voce in azienda che mi dimettevo per fare la contadina tanti colleghi che sembravano soddisfatti mi hanno confessato che volevano fare altro: il liutaio, il contadino, vivere al mare. Questo mi ha fatto riflettere molto sul valore delle nostre azioni che possono essere positive per noi ma anche per gli altri».

Questo percorso l’ha portata a diventare presidente di Slow food.

«Il mio percorso è stato connotato anche da tanta fortuna. Io mi sono trasferita in campagna e dal 2010 al 2012 ho pensato di fare la contadina, avevo aperto una azienda biologica, l’avevo anche certificata, ma non abbiamo trovato la sostenibilità economica e quindi l’ho chiusa. Questo insuccesso però mi ha insegnato moltissimo e nel frattempo avevo fondato l’associazione Il grano e le rose con cui cercavo di coinvolgere altre persone nelle mie ricerche. Poi ho conosciuto Slow food e allora ho iniziato a collaborare e ho avuto varie opportunità a cui ho detto sempre di sì. Dal 2012 al 2021 ho avuto varie esperienze rilevanti all’interno di Slow food, sono entrata nei coordinamenti regionali e nel consiglio nazionale. Ho avuto la fortuna di trovarmi al posto giusto nel momento giusto e anche la voglia di farlo».

È cambiata Slow food da quando lei è alla guida?

«Slow food a livello mondiale è il movimento del cibo. Ci sono migliaia di attivisti in 150 Paesi del mondo. In Italia il mio obiettivo, che credo sia stato raggiunto, era quello di aumentare la biodiversità e anche aumentare il numero dei giovani e delle donne all’interno di Slow food come dirigenti e attivisti. Ma anche porre la questione del sistema alimentare sul piano dei diritti umani. Evidenziare le connessioni tra l’impatto sociale e le questioni ambientali che il sistema alimentare ha effettivamente sul pianeta».

Il cambiamento climatico sta creando grandi problemi soprattutto all’agricoltura. Quali sono, secondo lei, le azioni più urgenti da mettere in atto?

«Cambiare il modello agricolo nell’ottica di integrare le attività umane con gli ecosistemi. Noi stessi facciamo parte degli ecosistemi, siamo dentro la natura e non possiamo pensare di metterci contro la natura. Abbiamo finora vissuto nella menzogna dello sviluppo infinito basato sulla menzogna che le risorse naturali fossero infinite. Adesso sappiamo che non è così, e tutto questo ci ha portato al degrado ambientale, climatico ma anche culturale e sociale, perché è tutto interconnesso. Adesso è tempo di sperimentare e di percorrere strade nuove. Per questo motivo ero interessata alla permacultura, alle tecniche di agricoltura sinergica per lavorare con e non contro la natura».

Nel suo libro parla anche di donne e cibo.

«Il mio libro non è imparziale, volevo che fosse il mio punto di vista e la mia prospettiva sul sistema alimentare, che forse è un punto di vista privilegiato ma è il mio con limiti e soggettività, perché ritengo che nella società manca ancora molto la voce delle donne. E quando in una società mancano delle voci non ci rimettono solo queste categorie ma ci rimette la società intera».

Arriva in Calabria, una terra ricca di tradizioni culinarie e di prodotti unici.

«La Calabria è un esempio di agrobiodiversità. Noi abbiamo attualmente circa 13 presidi in Calabria e una ottantina di prodotto nel catalogo dell’Arca del gusto. Abbiamo un progetto importante che dovrebbe portare nei prossimi anni all’apertura di altri sei presidi. Quello che noi facciamo come Slow food è quello di puntare il faro e richiamare l’attenzione su certi prodotti che sono cibi a rischio estinzione, sembrano dei microprogetti, ma anche grazie a questo in certi luoghi una bottega resta aperta e un ristorante decide di esserci. I nostri modelli vanno nella direzione di una proposta concreta per il futuro, sono progetti che guardano avanti. I prodotti vanno valorizzati in maniera importante, Slow food mette al centro e rende protagonisti i prodotti e soprattutto i produttori. I temi ambientale, agricolo e sociale sono strettamente connessi».

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