Musa Balde
4 minuti per la letturaLo chiamano “migrante” quel ragazzino di appena 23 anni, Musa. Leggiamo e leggeremo “migrante si è impiccato” sui giornali, in tv sentiremo definirlo tale se ancora ne parleranno (mai più, probabilmente).
Invece di nome non faceva “migrante”, non era scritto da nessuna parte che si chiamasse così perché la madre e il padre quando nacque gli avevano dato un nome bellissimo: Musa.
Si chiamava Musa, Musa Balde, veniva dalla Guinea, e la Guinea mica è un paese meno importante del nostro, non è che la gente lì abbia sangue diverso, o non abbia un cuore che sappia battere ed emozionarsi, amare, o un’anima che non sappia sognare e guardare in alto soltanto perché anima africana.
Un “migrante”, un “nero”, sogna e guarda in alto la luna e le stelle. Suonerà strano a molti, anche a tanti calabresi che magari leggeranno qui, per esempio quelli a cui piace sdraiarsi in terra bloccando le strade per non ospitare i rifugiati, a quei kapò che dettano legge nei campi di raccolta dei pomodori, oppure a quei tanti, troppi, ossimori smemorati, come li definimmo qualche tempo fa, quei meridionali cioè che hanno il candido ardire di votare per quei partiti (partiti poi, compagnie ecco) che ci volevano morti fino a qualche tempo fa sostenendo quanto puzzassimo e che non conoscessimo l’uso della carta igienica oppure, peggio, auspicando il blocco dell’esodo degli insegnanti del sud verso nord, tanto per citarne alcune perle superbe.
Ci dispiace informarti perché non lo meriti nemmeno, caro signore xenofobo di Palmi che lo hai pestato a sangue con due tuoi amici xenofobi siciliani fuori da quel supermercato a Ventimiglia: Musa sognava.
Sognava sì, anche non avendo i glutei al calduccio come li abbiamo noi e come ce li hai tu ai domiciliari (per quanto tempo, invece di essere tu, tu non Musa, cacciato da questo paese e per sempre?). Sognava, sperava contro ogni speranza pur non conoscendo San Paolo e la Lettera ai Romani dove l’uomo disarcionato da cavallo a Damasco spronava i suoi amici citando Abramo.
Sognava, sperando contro ogni evidente speranza di cambiare un po’ la sua vita. Certo non di comprare una Ferrari o di rubare il posto di lavoro agli italiani. Tanto meno il nostro cellulare, la menzogna con la quale il calabrese vigliacco e i due codardi siciliani lo hanno massacrato di botte a colpi di spranga.
Come se poi il tentativo di furto di un telefonino, ammesso che fosse reale, potesse avallare un massacro. E l’Italia, non contenta, che fa? Lo “uccide”. Nell’anima, quel ragazzino, sbattendolo dopo il pestaggio nel Centro di permanenza e rimpatrio di Torino, con la bella discolpa ufficiale della mancanza di documenti.
Migrante è diventato uno stigma, perciò. Essendo marchiato nello status, lo sei anche nei diritti sovrani per ciascun essere umano su questo pianeta: vita, libertà, sogni. E siccome Musa non aveva i documenti e in quelli che abbiamo “letto” noi con i codici che abbiamo nella testa marcia c’era scritto “migrante” questi tre diritti non li possedeva, non gli spettavano.
E siccome uno che di nome fa “migrante” non li possiede, merita di essere picchiato e poi di essere sbattuto dentro senza un vero motivo. Se ti impicchi come ha fatto Musa, disperato, incredulo, è quasi una cosa naturale. Eri migrante, non Musa che aveva sogni e pensieri come i nostri.
Se si impicca un bianco fa impressione, se si impicca uno che si chiama “migrante” sta nell’ordine delle cose per cui se scappa dalla sua terra che è maledetta (non perché lo sia, la Guinea, che è una terra bellissima, ma perché quattro straccioni vestiti da persone perbene vogliono che il continente africano resti maledetto) se lo deve aspettare.
Povero Musa, povero figlio di appena ventitré anni che sei andato a sbattere contro il Muro degli uomini che si dicono senza muri dicendo il falso. Pensavi di trovare accoglienza e sei finito nella terra degli ipocriti, l’Italia, della politica corrotta, l’Italia, dei cristiani della domenica, l’Italia. Quella che ti ha fornito le lenzuola per impiccarti nel bagno della tua stanzetta in un Cpr.
Quella dei giornalisti che scrivono “un migrante si è impiccato”, senza avere il cuore e le palle (perché poi implica impegno, perché i sentimenti costano fatica anche per chi fa informazione e dunque meglio continuare a cavarsela definendoli migranti e basta) di chiamarti per nome.
Quell’Italia che ha cercato in tasca i tuoi documenti, ti ha carcerato perché non li avevi, ti ha lasciato morire in un cesso. Senza invece pensare di guardare bene nelle preziose “carte” dei tuoi occhi, e nel lasciapassare del tuo cuore.
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