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Il battere della pioggia sui vetri, un fiore scelto e sistemato con cura su una lapide. Sono le donne a scorgere e riconoscere i miracoli, nelle minuzie del giorno e della notte. A raccontarceli. A raccontare così un mondo a noi altrimenti sconosciuto, contemporaneamente sostenendo sulle spalle quella terra dove tutta l’umanità cammina, scrivendo ciascuna il suo capolavoro, combattendo a mani nude una guerra dove il nemico muove carri pesanti e da quella parte oppongono l’arma di chi sa amare e non s’arrende, sperando contro ogni speranza. Di fronte anche alla morte, di fronte a una giustizia ormai perduta forse per sempre.
Per la giustizia, e contro ogni speranza, si era battuta Ebru Timtik. Consumata da uno sciopero della fame durato 258 giorni, a Istanbul. Chiedeva un processo equo, dopo l’arresto con l’accusa di appartenere a una organizzazione criminale. Una farsa, come in tutte le storie di tirannia. Ebru, al contrario, era una avvocata di grande spessore, una donna giovane e coraggiosa impegnata nella difesa degli oppositori di Erdogan, quel sultano che l’Europa riconosce invece come statista e di fronte al quale ha scelto di restare succube, inerme, anche quando sul profilo di Santa Sofia, ex millenaria cattedrale cristiano-ortodossa, sono tornate a sventolare le bandiere dell’Islam, ma non quello che parla al cuore, che noi conosciamo e rispettiamo. Dalla sua cella, e poi dalla stanzetta di ospedale, dove era ricoverata da quando il suo fisico non ha più retto il peso di quella protesta così radicale, Ebru non ha mai rinunciato al suo grido di libertà. Per tutti, non per se stessa. Per i perseguitati, per le donne e gli uomini sui quali nessuno sguardo si è mai posato. La sua morte insegna, insegnerà a vivere. Perché mentre lei si spegneva la mano della verità scriveva il suo nome in quel libro che ciascuno, consapevole o meno, porta dentro e forse un giorno sarà capace di leggere, quando sul mondo si farà ancora più buio. Le donne combattono, muoiono, rinnovando però tutte le volte per gli altri la vita. E c’è, tra esse, come una magica connessione. Sembra diffondersi col vento, tra una terra e l’altra.
Incontriamo nuovamente, a distanza di tredici anni, Donatella Catalano. La scorsa domenica mattina, al suo arrivo al cimitero di Siderno, ha salutato Gianluca come sempre fa: ciao amore di mamma tua, incrociamo i nostri sorrisi. Gianluca Congiusta, assassinato dalla ‘ndrangheta il 24 maggio del 2005. Un piccolo crocevia periferico che costeggia una strada spesso deserta, non lontano dalla ciminiera di una vecchia fabbrica di mattoni. Erano le 10, gli spararono in volto. “Quella mattina non hanno ucciso Gianluca, perché lui vive, ma hanno ucciso me”, ci ripete, ancora oggi. I suoi occhi non avevamo mai dimenticato dopo quegli ultimi abbracci e quel filo annodato insieme, nella sua casa della Locride con le figlie Roberta e Alessandra, e il marito, Mario, morto col cuore spezzato perché senza giustizia. Ed è, Donatella, una madre senza giustizia che come Maria sotto la Croce ripete lo stesso mantra: figlio mio, sangue del mio sangue, cuore del mio cuore. Ma, come Maria, Donatella è una donna che ci insegna a vivere, che indica la strada da percorrere. “Vorrei mettermi delle scarpette di vento, e volare – dice, sorridendo –, chiudere gli occhi, poi riaprirli, perdermi nell’immensità, trovare Gianluca”. E’ lei a consolarci, non viceversa. Nelle polpette che ci ha preparato assaporiamo quel profumo di madre che ci mancava, e poi quel suo accarezzarci, toglierci dall’imbarazzo. Asciuga le nostre lacrime, e quelle del mondo che la circonda. Come di quella mamma al cimitero, smagrita, distrutta per la morte del suo bambino a soli 15 anni, durante una partita di calcetto. “Le ho preso le mani, le ho tenute nelle mie e lei alla fine ha accennato un sorriso, promettendomi di reagire. Ho un grande urlo soffocato dentro, ma un grande bisogno di aiutare gli altri, e trasformare questo dolore in vita. Gianluca avrebbe voluto così”.
Leggiamo nella cura paziente delle nipoti, Maria Sofia, quattro anni, e Vincenzo Luca, tre, le carezze alla figlia Alessandra, una cura universale, un abbraccio stretto a tutte le donne del mondo. C’è, subito, un pensiero per Ebru. Insieme a quello per Roberta, la primogenita. Roberta che ha lasciato la Calabria, affranta, delusa, lasciata da sola da chi avrebbe dovuto aiutarla. Nel cuore, e in valigia, il sorriso immenso di Gianluca e lo sguardo triste di papà Mario. Però è una donna che tutte le mattine prende il volo decollando con la forza di un aeroplano, come canta Lorenzo Jovanotti, nella sua nuova vita a Bologna. “Quando perdi fiducia nella giustizia, quando ti rubano anche la speranza di poterla ottenere, ti trovi davanti a un bivio – dice –, divisa tra il senso di responsabilità per quella battaglia vanificata, e il bisogno di concederti la possibilità di una vita normale altrove. Vivo amputata, ma reinventata. Con la forza e la dignità che ti hanno trasmesso tuo padre e tuo fratello. Non so se tornerò nella mia terra, una terra che ci ha brutalmente ingoiati, ma so che il mio cuore continuerà a anelare giustizia per Gianluca, ucciso da un assassino, giustizia per mio padre, soffocato da una sentenza, e pace per mia madre. Sopravvissuta a suo figlio”.
Nessuna donna smette di lottare. Ogni giorno tutte lottano contro un mondo che ancora stenta a riconoscerle. Quando sono loro a nutrirlo, a reggerlo, puntellandone cedimenti e mancanze. Ed è nelle storie anche minute, sconosciute, che troviamo la loro grandezza. Maria Luigia Alimena ha 45 anni, di recente è stata nominata coordinatrice regionale migranti e politiche sociali per la Calabria di Confial, la Confederazione italiana autonoma lavoratori. Sogna di scrivere. Fa la mamma, combatte da sola. Maria Luigia è una donna che insegna: perché, racconta, “nella mia vita i cambiamenti, le cadute e il dovermi rialzare sono un continuo riproporsi. La mia forza è un figlio, Marco, diciassette anni, il mio più grande antagonista, giudice e al tempo stesso sostenitore”. È una storia dolorosa, dove però tutto questo dolore si trasforma in bene, come per tante donne, in occasione per se stesse e per il prossimo. Nasce orfana, un cancro uccise sua madre quando lei aveva appena tre mesi. La perdita di un bimbo al quinto mese di gravidanza, “un figlio che sento mio e vivo nonostante non sia mai nato”, un uomo, padre di quel bambino, che la abbandona, una malattia che le aveva tolto lavoro e certezze. Eppure Maria Luigia combatte, per Marco, per le altre donne, per quelle che subiscono violenza. Apre un gruppo social che si chiama “L’Altra parte del cielo”. Fa informazione, e scrive. Parla delle donne che soffrono. Quelle righe aprono le sue ferite, ci spiega. Ferite che sanguinano, ma che ogni volta guariscono.
Come per Alessandra Baiocchi, romana, 56 anni, che lavora al ministero della Giustizia e impiega gran parte del suo stipendio per volare, appena può, nella sua Africa. Dal 2011 gestisce una scuola primaria in Kenya, non lontano dalla zona dove sequestrarono Silvia Romano. Ma non solo. Alessandra è appena rientrata dal campo profughi sull’isola di Samos, in Grecia, dove ha montato una tenda di primo soccorso. È delusa, però. Anche l’umanità che ruota attorno agli aiuti per gli sfollati, è spesso una umanità nera. “Questo viaggio è stato un fallimento – ci racconta, le lacrime agli occhi –, nonostante la bellezza delle donne, degli uomini, dei piccoli di cui ci siamo presi cura. Le persone spesso peccano di protagonismo. Non è per me”. Il suo è un diario comunque ricchissimo. I numeri, i volti, le storie, sono agghiaccianti: ottomila rifugiati, tra cui un migliaio di bambini, ammassati come bestie, in mezzo alla spazzatura. Arrivano da Siria, Palestina, anche Africa adesso. “Ho riso, ho pianto, ma anche cantato con loro, mentre fuori da qui c’è il potere, l’economia. Sono una donna, sono da sola, e come quei rifugiati chiusa in un inferno: quello di un mondo che non vuole che tutto questo smetta di essere”. Ma nonostante le lacrime, il senso di impotenza, Alessandra ha la valigia pronta. Ci sono i suoi bambini africani, hanno bisogno di lei. Sola, lotta. Come tante donne, nelle loro case, con le rispettive tristezze, sul posto di lavoro, o in un campo profughi, per le strade del mondo. Combattono la loro durissima battaglia, uscendone anche a pezzi, ma sempre rialzandosi. E così facendo insegnano, indicano la strada a una umanità smarrita. Anche scorgendo miracoli, come raccontava Irène Némirovsky in “Suite francese”, perché per esse questa musica, quel rumore della pioggia sui vetri, questo lugubre scricchiolio del cedro nel giardino di fronte, questo momento così dolce, così strano in mezzo alla guerra, non muterà.
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