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SAN FERDINANDO (REGGIO CALABRIA) – Una casa lontano da casa. L’hanno trovata i braccianti, provenienti dal Senegal, dal Gambia e dal Mali, che lavorano nella Piana di Gioia Tauro, in condizioni molto spesso disumane. Finalmente fuori dal ghetto, grazie al progetto di Mediterranean Hope – Fcei, i “ragazzi dei campi” possono, infatti, abbandonare i container, le tendopoli e gli alloggi di fortuna in cui sono relegati per vivere esistenze finalmente dignitose all’interno di una vera e propria abitazione.
E l’abitazione non può che chiamarsi “Dambe so”: tradotto dal Bambarà, “Casa della dignità”, esempio di sostenibilità ed economia circolare. «Abbiamo aperto tra febbraio e marzo – spiega Francesco Piobbichi, coordinatore del progetto e operatore di MH –, garantendo a circa venti braccianti l’ingresso in casa. Lavoratori – aggiunge – che contribuiscono alle spese dell’immobile e che, così facendo, dimostrano, nonostante il loro salario minimo, di non aver bisogno di forme d’assistenzialismo».
Ma non è tutto. Per concretizzarne l’uso sociale, la “Casa della dignità” – ristrutturata grazie all’aiuto delle maestranze locali al fine di distribuire “ricchezza” sul territorio – si basa anche su un sistema di donazioni. «Una volta che i braccianti vanno via, per lavorare in Campania e Sicilia soprattutto (si pensi che attualmente in tutta la Piana vi sono “solo” 400 lavoratori) – dice il coordinatore –, nell’abitazione giungono delegazioni di gruppi d’acquisto italiani e membri di varie associazioni nazionali: vengono per dare il loro contributo (una donazione, nella specie), ma anche per comprendere come replicare questo modello virtuoso».
Un modello, pertanto, che si autorganizza. «Sì – chiosa Piobbichi –, per esempio, riusciamo a pagare l’affitto anche attraverso il supporto di “Sos Rosarno” e della cooperativa “Magna terra” che, con la loro filiera, ci hanno permesso di vendere le arance a un prezzo equo e quindi, come dicevamo, di andare incontro alle varie spese».
La narrazione è, in altre parole, basata sul concetto di responsabilità sociale, e su quello di umanità. «In tal modo – afferma ancora il coordinatore – riusciamo a far sì che i braccianti possano rinnovare il loro permesso di soggiorno: hanno una casa abitabile; ora – aggiunge – la sfida è quella di moltiplicarle, queste abitazioni, in modo da ospitare più di venti persone, il maggior numero di persone possibili».
Non dimenticando, insomma, che si tratta di persone, le quali, tra i 25 e i 35 anni, sono state «abbandonate da quella politica che ha costruito tendopoli, poi smantellandole, e autentici ghetti». Uomini lasciati a se stessi nelle periferie, ai margini, al di là della frontiera dei diritti.
Neanche a dirlo, la “Casa della dignità” sorge in mezzo a un quartiere: è lì, tra le gente, il posto giusto. Quello dove bisogna stare. «I nostri primi mesi – sottolinea Piobbichi – sono stati davvero positivi, all’insegna dell’integrazione, in una casa che non è un albergo». Ma è, si potrebbe dire, una famiglia che – su modello della realtà di Drosi e portando avanti, al suo interno, pure una serie di attività (dai corsi di italiano a quelli sullo sport) – rivoluziona le carte in tavola: la regola, e non l’eccezione, è essere uomini.
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