Il progetto del Museo del Mare
6 minuti per la letturaREGGIO CALABRIA – Il Ponte e l’orizzonte dello Stretto, la nuova vocazione urbana amalgama di vivibilità e bellezza, un senso di appartenenza che vacilla sull’orlo di fazioni campanilistiche. A Reggio il “secondo tempo” del sindaco Giuseppe Falcomatà ha acceso un confronto infuocato su urbanistica e cambiamento della città. Ne abbiamo parlato con Fernando Miglietta, architetto e artista esperto di aree urbane. Direttore e fondatore dell’Istituto Internazionale di ricerca urbana e della rivista Abitacolo, nell’ultimo numero racconta “Identità e Visioni”. Partiamo da qui, dalla ricerca della forma come valore identitario.
Il dibattito in corso nella città dello Stretto non è scevro da risvolti politici ma i reggini sono coinvolti e partecipi, si avverte l’esigenza di esprimersi, di non essere tagliati fuori dalle decisioni. Trova Reggio migliorata o peggiorata? Di cosa avrebbe davvero bisogno in termini di dimensione urbana, ambiente e attrazione turistica?
«Ben vengano i dibattiti sul futuro delle città, soprattutto del Sud e in particolare, calabresi, segnate storicamente da un destino di rinuncia urbana che ne ha condizionato negativamente lo sviluppo, cancellandone a volte la matrice originaria. Purtroppo, in molti casi sono solo sterili polemiche che alimentano contrapposizioni di parte e, quindi, incapaci di promuovere idee. L’attenzione su Reggio oggi mi pare naturale se si pensa che questa città, più di altre, vive il passaggio traumatico da “area urbana a città metropolitana”, senza essere né l’una né l’altra. Di cosa ha bisogno, allora, Reggio Calabria per divenire città? Anzitutto di una nuova progettualità in grado di ripensare, rigenerando, la sua identità smarrita, contro ogni forma di modernismo incolto che sovrasta con modelli omologanti e sconvolgimenti artificiosi la natura stessa della città. Reggio, prima di essere o di divenire città metropolitana, è “città mediterranea”, con le sue vocazioni e potenzialità, ricca di storia, ambiente e umanità. Questa è la sua bellezza, la sua forza attrattiva. Occorre valorizzare il suo disegno come immagine emblematica delle culture che l’hanno attraversata nel corso del tempo».
Cosa ne pensa del rifacimento di piazza De Nava? L’attuale progetto la convince o farebbe altro?
«Anche in questo caso occorre rispondere al bisogno di riqualificazione della città con una progettualità in grado di coltivare lo spirito dei luoghi. Non mi pare che l’insieme dei segni che caratterizzano il progetto rispondano in maniera convincente all’esigenza primaria che la città ha di ritrovare memoria, “memoria urbana“ intendo, su cui innestare nuovi legami di continuità con l’impianto urbano. Il ridisegno di un sito come Piazza De Nava non può non puntare sul valore della memoria come bellezza e visione identitaria, laddove proprio in quell’area, nel museo del Palazzo Piacentini, sono ospitati i Bronzi di Riace. La visione progettuale deve divenire base ideologica per riprogettare e disseminare con segni inclusivi tutta la città».
Il Waterfront, oltre ogni polemica, cambierà il volto della città. In che modo questa grande opera potrà essere davvero funzionale in continuità con il parco lineare sud e l’avveniristico museo del mare di Zaha Hadid?
«Occorre che la città riaffermi il diritto ad un nuovo rapporto di riequilibrio tra natura e artificio che a me pare, anche in questo caso, del tutto sbilanciato a favore dell’artificio. Con inevitabili ripercussioni negative sulla caratterizzazione dell’immagine e della struttura della città. Occorre interrompere quella visione demiurgica, quel tutto edificato e disegnato in linea con modelli stilistici di stampo modernista ma senza un rapporto dialettico con il paesaggio in un contesto naturale che invoca tutela e conservazione dei luoghi. Quindi interventi meno macro e più micro, nel segno delle differenze e distanti dalle omologazioni di importazione globalizzante».
C’è chi invece punta di più su Mediterranean Life, il porto turistico a San Leo.
«Senza una visione d’insieme, senza un progetto strategico e un’idea di città, le proposizioni progettuali come il sistema dei porti turistici, che pur rappresentano una ricchezza per il territorio, sono destinate ad una breve stagione con gravi ripercussioni e dagli effetti imprevedibili. Occorre attivare un “laboratorio creativo della città metropolitana”, indirizzato a modulare unità e molteplicità dei segni.Tutto deve essere ricondotto e rapportato ad una idea di città che punti su una nuova misura e scala dei Valori urbani. Occorre bloccare la deregulation in atto che non ha prospettive di sviluppo».
Il tapis roulant è oggi una cattedrale nel deserto: scale mobili chiuse e ferme, per non parlare del mai concluso ultimo tratto. Era un elemento urbano utile e caratterizzante, oggi dobbiamo dire che invece è stato solo un enorme spreco di soldi?
«Alcune opere nascono da un’esigenza temporale, si misurano con il contingente. La cultura della città ci insegna invece che la sua crescita o decrescita, la sua bellezza, la sua unicità, dipende dalla capacità di dialogare con la storia includendo segni che sappiano arricchirla qualitativamente. I tapis roulant sono elementi estranei alla cultura storica della città e al suo impianto urbanistico, in molti casi devastato da interventi fuori luogo. Proprio nei percorsi delle scalinate trasversali e nelle sue prospettive si ritrova invece una bellezza unica nella vista del paesaggio tra cielo, mare e terra».
Le statue di Rabarama sul lungomare sono in stato di profondo degrado, farà la stessa fine l’installazione delle colonne di Tresoldi? Un museo all’aperto bisogna saperlo gestire…
«In questi anni, in molti, hanno confuso l’arte di progettare con l’arte di arredare. La fragilità di un disegno urbano non può essere affidata all’arte ma al contrario, il nuovo disegno della città deve interfacciarsi con i processi creativi. Per aver ridisegnato il Mab a Cosenza, esempio per molti versi singolare di una macro donazione alla città, posso dire che anche a Reggio sarà necessario restituire nuovo valore e comunicazione al rapporto arte e città. Occorre allora stimolare un’azione creativa diffusa, indirizzata a diffondere un modello di città fondata, appunto sul concetto di città/opera d’arte. Cioè modelli di intervento e capacità di gestione che fanno riferimento a precise regole d’arte».
In questo contesto è davvero urgente realizzare il Ponte? Che impatto avrà sull’habitat marino e in una zona altamente sismica?
«Le città belle, i luoghi suggestivi, sono quelli costruiti nel tempo come somma di culture e contaminazioni, di segni e sogni. Il Ponte sognato, svelato, tracciato, ancora una volta riappare con tutta la sua carica dirompente di immaginazione e di cambiamento in un’area che di fatto si pone come un cantiere laboratorio in progress del mediterraneo. Due regioni, Calabria e Sicilia, e con loro tutto il Mezzogiorno, attendono da tempo di rafforzare il fragilissimo sistema infrastrutturale, ma questo dovrà avvenire nel rispetto dei territori e dell’ambiente. Occorrerà prestare molta attenzione ai due approdi del ponte dove l’impatto, senza un preventivo e puntuale progetto urbanistico di qualificazione, sarà inevitabilmente destabilizzante. Certamente la costruzione del Ponte può divenire occasione strategica per rilanciare quella visione di sviluppo sino ad oggi mancante. Davanti a noi c’è una grande sfida progettuale, culturale e politica, che non può più fondarsi sul “consumo” ma sulla ricerca del “valore” che nell’Area dello Stretto è, anzitutto, identitario, di paesaggi, storie e leggende».
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