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Giuseppe Valarioti

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di GIUSEPPE LAVORATO

In queste settimane di memoria, accomunare Peppe Valarioti e Peppino Impastato è un impulso del sentimento, un riflesso del pensiero.

Sono storie parallele.

Tutti e due uccisi dalle mafie quando avevano soltanto trent’anni.

Tutti e due muniti di solida formazione culturale e politica, vivace intelligenza, amore per la bellezza, le arti, la musica.

Quelle di Peppino Impastato e Peppe Valarioti sono storie parallele.

Peppino diceva che educare alla bellezza forma persone libere, combattive, che non si arrendono alla paura e all’omertà, decise a difendere l’ambiente, la natura, l’arte.

Peppe voleva che il ‘nostro partito’ (così chiamava il PCI) si impegnasse di più per far conoscere ed amare la musica anche alle persone dei ceti meno
abbienti

Ma il sentimento che di più li accomunò fu l’amore per la libertà e la giustizia sociale, l’impegno generoso per proteggere i giovani dall’insidia criminale, la lotta contro la prepotenza e la violenza che incutono paura per imporre la tirannide che diviene la sorgente del potere e delle ricchezze mafiose.

A Cinisi, Peppino e i suoi compagni su ‘Radio Aut’ e ‘Onda pazza’ definivano la mafia ‘una montagna di merda’ e irridevano il capo di ‘cosa nostra ‘chiamandolo ‘Tano Seduto’, capo di ‘Mafiopoli’, per spogliarlo dell’alone di cui si ammantava per suscitare soggezione

A Rosarno, con lo stesso proposito, Peppe Valarioti e i suoi compagni comunisti andavamo nelle piazze dei comizi per denunciare la rapina mafiosa alle risorse pubbliche destinate alle esigenze di vita civile dei cittadini ed al bisogno di lavoro dei giovani e dei disoccupati.

E per porre al centro dell’attenzione il concreto pericolo che la ‘ndrangheta rubasse anche la vita dei giovani, avviandoli alle attività criminali con la lusinga del denaro facile. Queste amare e dolorose verità gridammo, i comunisti di Rosarno e della Piana, nelle piazze centrali ed in quelle dei quartieri popolari nelle quali i palazzi dei boss sono addossati alle case della povera gente, nei luoghi dove la ‘ndrangheta recluta ed addestra la sua manovalanza.

Verità che toccavano la carne viva ed i pensieri di persone che oltre a subire sofferenza economica, pativano anche preoccupazione per i pericoli che incombevano sui propri figli.

Ed esplose la collera sociale che riempì i cortei di lotta nei paesi della Piana

Fiumane di donne, di giovani, popolo che gridavano il loro disprezzo ai mafiosi ed ai loro complici ed allontanavano dai palchi delle manifestazioni unitarie i politici e gli amministratori chiacchierati e corrotti.

E nel tribunale di Reggio Calabria, in coerenza con la lotta nel territorio, i testimoni comunisti, smascherando silenzi complici ed omertosi, raccontavano l’aggressione mafiosa agli appalti, ai sub appalti nei lavori di costruzione del porto di Gioia Tauro e delle grandi opere pubbliche, il controllo dei cantieri, delle assunzioni, degli acquisti, il monopolio dei trasporti; l’assalto mafioso al litorale di Palmi; la cava di Limbadi acquisita dai Mancuso con le intimidazioni ed i soldi dei grandi boss della ‘ndrangheta.

Irrisione a Cinisi, denunce pubbliche e lotta di popolo a Rosarno e nella Piana: i pezzi da novanta sentirono che sotto i loro piedi incominciava franare il terreno.

Non è metafora: è terra, terreno, territorio, popolazione che sfuggiva al loro controllo. Non poterono sopportare e ricorsero alle minacce più gravi.

A Cinisi misero sotto torchio il padre di Peppino, a Gioia Tauro il padre del segretario della sezione comunista, a Rosarno diedero fuoco nella stessa notte alla sezione ed all’auto del candidato comunista alla provincia. 

Non si piegarono a Cinisi, non ci piegammo a Rosarno, a Gioia Tauro, nella Piana. Ed allora uccisero. Per ripristinare il terrore e riappropriarsi del controllo del territorio.

Le inchieste giudiziarie sono l’ultimo aspetto che avvicina le due storie.

Le inchieste giudiziarie

In quella sull’assassinio di Peppino, dopo i depistaggi giunsero le rivelazioni del pentito Salvatore Palazzolo che indicò come mandanti il capo di ‘cosa nostra’ Gaetano Badalamenti ed il vertice mafioso di Cinisi. La Procura della Repubblica di Palermo approfondì quella pista, indagò e portò al processo gli argomenti ed i fatti che produssero la sentenza di condanna all’ergastolo per Gaetano Badalamenti ed a trent’anni per il suo vice.

Anche l’inchiesta su Peppe ebbe la rivelazione del pentito Pino Scriva che, raccontando la confidenza fattagli da Giuseppe Pesce, indicò in Giuseppe Piromalli colui indusse  lo stesso Giuseppe Pesce a ordire l’assassinio. Ma, incredibilmente, quella testimonianza fu cestinata, nonostante provenisse da un pentito le cui rivelazioni servirono ai giudici per comminare decine di ergastoli.

Di fronte al nome del patriarca della ‘ndrangheta, l’indagine si arrestò. E non mosse un passo verso lo ‘stato maggiore della mafia, consorzio delle cosche che ha programmato l’assalto alle opere pubbliche ed alla spartizione dei profitti’  (così identificato a Reggio Calabria nel processo contro Destefano più 59).

E nemmeno ‘allargò la ricerca del movente in quel vasto panorama del complessivo impegno della vittima e del partito politico da essa guidato….e nei più vasti centri di potere e di accumulazione di ricchezza’ , (come scrisse e suggerì la stessa sentenza di Palmi).

Perché tanta inerzia ed omissione?

Perché non s’indagò sui fatti rilevanti dello scontro tra il PCI e la ‘ndrangheta nel territorio della Piana e sulle denunce pronunciate dai comunisti nell’aula di giustizia di Reggio Calabria?

Perché non s’indagò ‘sulle minacce e gli attentati  ai comunisti che erano già un segnale preciso di ciò che stava maturando’ come scrisse l’avvocato Fausto Tarsitano, nell’intervento di protesta per le inerzie della Procura della Repubblica?

E sulle stesse denunce pubbliche di Peppe Valarioti che ‘inquadravano quegli attentati nella pesante ingerenza della mafia di Rosarno nella campagna elettorale? 

Ma le domande senza risposta sono ancora moltissime. Oggi ce n’è una che le racchiude tutte: quelle inerzie, quelle omissioni furono soltanto grave incapacità di analizzare e comprendere i fatti e gli avvenimenti?

Nel processo Gotha, che si sta svolgendo a RC, sul banco degli imputati siede il potere criminale, costituito dall’intreccio tra mafie, settori importanti della politica, delle istituzioni, della massoneria deviata e dell’imprenditoria affaristica.

Quel potere dentro il quale la ‘ndrangheta è cresciuta in Calabria, in Italia e nel mondo. Tra i tanti personaggi di rilievo pubblico rinviati a giudizio c’era l’ex procuratore della Repubblica di Palmi Giuseppe Tuccio,  per testimonianze che lo accusano di presunti suoi rapporti con gli ambienti mafiosi di Gioia Tauro e di Reggio Calabria.

La morte dell’ex magistrato ha chiuso il procedimento giudiziario nei suoi confronti. Legittimamente. Perché il diritto alla difesa è principio basilare ed imprescindibile.

È altrettanto legittimo auspicare che i magistrati calabresi, che stanno portando alla luce vicende oscure del lontano passato, mantengano viva attenzione e facciano luce anche su quel che avvenne in Calabria (nella società e dentro le istituzioni, comprese quelle giudiziarie), in quegli anni di duro scontro sociale e politico. Durante i quali la ‘ndrangheta uccise il segretario della sezione comunista di Rosarno, Giuseppe Valarioti, il capogruppo comunista al consiglio comunale di Cetraro, Giannino Losardo e tentò di assassinare Quirino Ledda, con il gravissimo attentato che gli distrusse l’abitazione ed avrebbe potuto uccidergli l’intera famiglia.

Quei delitti furono preceduti da altri omicidi mafiosi di militanti comunisti: Francesco Vinci a Cittanova, Rocco Gatto a Gioiosa Jonica, Orlando Legname a Limbadi.

Negli anni successivi scoprimmo che pezzi importanti delle istituzioni nazionali era stati occupati dalla P2, l’organizzazione segreta costruita per impedire l’ingresso dei comunisti nel governo del Paese.

E nel sud era stata costruita la ‘Santa’, il nuovo e più alto livello di organizzazione criminale nel quale i pezzi da ’90 di ‘cosa nostra’ e ‘ndrangheta stringevano rapporti con settori della politica, delle istituzioni, dell’imprenditoria, della massoneria e dei servizi segreti deviati, per intrallazzare, corrompere ed indirizzare a loro vantaggio il corso della politica, degli affari economici e di molte indagini giudiziarie.

Non abbiamo strumenti per capire e sapere se la P2 e la Santa sono state smantellate o sono ancora operanti.

Sappiamo, però, che per fronteggiare adeguatamente e sconfiggere le organizzazioni criminali e mafiose che insidiano la libera, democratica e civile convivenza non bastano la magistratura e le forze preposte all’ordine pubblico. Lo dicono per primi i magistrati più impegnati.

Lo strumento più efficace è la partecipazione democratica, l’impegno, l’iniziativa e, quando è necessaria, la mobilitazione e la lotta sociale democratica. Strumento che può essere costruito soltanto dalla politica, quando è degna della sua altissima funzione: vivere ed operare dentro i bisogni e le speranze di giustizia sociale e di crescita civile dei poveri, dei diseredati e dei giovani e delle persone oneste e laboriose.

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