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“Gli innamorati” di Dariush, pittore e poeta francese di origine iraniana

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Quando si parlano Qandil e Nicol sembrano improvvisamente staccarsi dalle pagine del Cantico dei Cantici, da strofe come quel tuo collo è una torre d’avorio/i tuoi occhi son come le piscine d’Heshbon presso la porta di Bath-Rabbim./ Il tuo naso è come la torre del Libano, che guarda verso Damasco. Vi raccontiamo una storia d’amore, di lotta e di poesia che consideriamo come un dono inatteso di inizio d’anno. Perché Qandil e Nicol sono un canto alla speranza, al coraggio, in un tempo senza speranze e dove il coraggio non è più di casa.

Lui è un rifugiato politico curdo, lei è italiana, calabrese di Reggio.

Si sono incontrati nel fuoco, e tra i fumi della battaglia quotidiana si amano senza le fakes a cui questa epoca assuefatta alle negligenze ci sta abituando, bensì con la forza del garbo, del silenzio, della poesia. Contro i pregiudizi, la fatica, la paura di non farcela, combattono da quella mattina quando scoppiò un grande incendio proprio nei pressi del gruppo di case dove abitava lei, quando Qandil, che passava da lì per caso, si lanciò in giardino per soccorrerla vedendola sola e alle prese con un grosso tronco che sbarrava la via di fuga.

Un valoroso per cromosoma antico, Qandil, di quei valorosi da libri di storia che si lanciano tra fiamme anche non loro e quella storia la cambiano.

Eppure i curdi non hanno amici se non le montagne. Questo vecchio proverbio fa venire in mente le sue mani e i piedi rotti nelle scarpe da tennis mentre da solo attraversa il confine tra Iran e Kurdistan iracheno, due giorni e due notti, per raggiungere Erbil e far conoscere alla famiglia la futura sposa. Erano partiti insieme dall’Italia, poi separando le strade perché Qandil non avrebbe potuto far rientro in patria per vie ufficiali, come fece Nicol che nel frattempo lo attendeva in un hotel del capoluogo.

Così questo ragazzo dal cuore rovente affrontò il rischio del tragitto attraverso quelle montagne, pur di onorare la promessa fatta a Nicol e alla madre: “Voglio conoscere la donna italiana che ami, amarla anch’io. Potremmo anche non rivederci più io e te”. Qandil era partito qualche anno prima, direzione Svezia. Io vado, madre./Se non torno,/sarò fiore di questa montagna,/frammento di terra per un mondo/più grande di questo./Io vado, madre./Se non torno, il corpo esploderà là dove si tortura/e lo spirito flagellerà,/come l’uragano,/tutte le porte./Io vado… madre…/Se non torno, la mia anima sarà parola…/per tutti i poeti. Anche i versi di Abdulla Goran, padre della letteratura curda moderna, sembrano ricamati addosso a Qandil. Tuttavia qui oltre alla prospettiva rivoluzionaria c’è una fondamentale, forse, variazione sul tema: la parola del combattente verrà ereditata più che dalla guerriglia, dai poeti. Da noi tutti perciò, se solo capissimo quanto sarebbe importante accettare un lascito di tale portata.

La vicenda del dolce combattente Qandil del resto ha origini in una notte piena di poesia: la tradizione curda vuole che i nomi dei futuri nascituri siano frutto di una sorta di ispirazione, al momento del concepimento. I suoi si amarono in una oscurità piena di stelle, quando dalla loro finestra potevano scorgere, come ammirando un antico presepe, quelle montagne al confine che si chiamano proprio Qandil, e così decisero di chiamare quel piccolo che sarebbe diventato un ragazzino attento e forte come quei monti, poi un uomo pieno di giustizia e passione.

Lo stesso che scala come un lupo tutto solo il grande promontorio pur di far conoscere Nicol ai suoi prima del matrimonio. “Quando mi raggiunse a Erbil era sporco dalla testa ai piedi, come se avesse rotolato nella terra per ore. Non voglio nemmeno pensare all’ipotesi di una sua cattura, a quest’ora era in carcere, lo avrebbero torturato, o forse ucciso subito. E la stessa cosa fece al ritorno, mentre io lo attendevo all’aeroporto di Atene”, racconta Nicole allattando il piccolo Diyar, eccolo, bellissimo, nato in agosto. Il suo nome significa dono.

Qandil non ha potuto assistere al parto, e tutto il tempo è rimasto in silenzio a leggere poesie e a pregare. “Una storia d’amore è sempre una storia unica, io voglio pensare che tutte abbiano una loro grande forza insieme alle fragilità, come la nostra”, sorride Nicol rispondendoci in merito al nostro definirla una privilegiata nell’aver incontrato un ragazzo così pieno di talenti, osservando poi il loro bambino quasi miagolare, dando pure un’occhiata al forno dove sta dorandosi una lasagna, per la quale Qandil ha una particolare predilezione. Lei si è laureata in architettura a Reggio Calabria, ma è senza lavoro come tantissimi ragazzi italiani e, sappiamo bene, calabresi in particolare.

Anche Qandil è laureato e oltre al curdo e l’italiano parla inglese, svedese, norvegese e arabo.

Ha trovato qualcosa da fare al porto e per adesso va bene. In tasca soprattutto hanno dignità e fierezza, e una unica voce coraggiosa.

Entrambi, seppur giovanissimi, hanno negli occhi quella speciale luce di chi ha conosciuto nella vita difficoltà importanti e da queste ha saputo cogliere un’occasione, diventando testata d’angolo che edifica. “Doveva andare così, dovevamo incontrarci – dice Nicol cullando Diyar, che ormai quasi ha gli occhi chiusi –, lui veniva da un paese stupendo ma sulle spalle tutto il peso della storia del suo popolo martoriato, io da un periodo molto brutto, avevo da poco superato un tumore. Ripensando a quel giorno, mi pare come se fosse stato scritto il nostro copione. Quella mattina le fiamme ormai vicine alle case, il rombare del Canadair, io terrorizzata, i vigili del fuoco in azione, Qandil che blocca la sua auto scendendo di corsa e che comincia a darsi da fare andando avanti per ben sei ore nero come il carbone, i vestiti strappati”.

Sembrava un film, quando la scena viene passata al rallenty: il fumo, il sudore sulle fronti di eroi sconosciuti, Nicol che resta senza fiato, scossa e felice insieme. Aveva anche perso il gatto, che tutto tranquillo si ripresentò dopo una settimana. E con lui Qandil, che Nicol invitò con il suo amico a cena per ringraziarlo.

“Era ancora stupita dai suoi gesti, da come si muoveva, dall’altruismo gratuito che aveva come scolpito nelle mani. Penso che quelle fiamme siano state un’offerta del cielo: forse già mentre lui spegneva l’incendio e spostava quel tronco, io mi innamoravo. Quella sera a tavola parlammo a lungo, restai incantata dai suoi occhi, che certo sono belli, ma dietro hanno tutto un sentimento di secoli. Il suo popolo ha molto patito, e molto ancora patisce.

Gli hanno negato l’identità, ma difendono i diritti di tutti. Per un commento sui social da quelle parti si rischia il carcere o la vita stessa”. Per capire, occorre conoscere. Così fece Nicol, rimasta un mese nel Kurdistan iracheno a casa di Qandil lo scorso anno, prima di sposarlo.

Dopo la laurea in matematica lui aveva lasciato il paese.

In Svezia si era arrangiato a lavorare ovunque. In Calabria era venuto a trovare dei suoi amici, e se non fosse stato per quelle fiamme, e per la fiamma che gli è scoppiata dentro incontrando quella che poi sarebbe diventata sua moglie, avrebbe dovuto far rientro nella bella Kalmar, famosa per il suo castello medievale, centrale nella storia svedese di quel periodo.

A Erbil vivono la mamma, un fratello e degli zii. “Gente meravigliosa e accogliente – ci spiega ancora Nicol –, gente che sa condividere tutto, anche se fosse un solo tozzo di pane. Ricordo che la sera veniva lo zio di Qandil e suonava per me la fisarmonica. Sono allegri, sorridenti, senza paura nonostante la guerra fosse stata, per tutti, anche a pochi chilometri dall’uscio. Per loro se sopravvivi è Dio che lo vuole e devi fare di tutto per star bene, onorare questo destino. Se hai dei figli e sono sani, se hai cibo sulla tavola, allora sei ricco”. Nicol ricorda con noi la bellezza delle donne, i colori di favolosi tessuti, la fantasia, la forza dei loro pensieri. La donna è al centro di tutto. Anche della battaglia. Pensiamo alle guerrigliere del Pkk in mimetica e kalashnikov a tracolla, splendide, i capelli corvini, gli occhi profondi, impegnate a contrastare l’invasione turca a nord est della Siria, quelle stesse donne che invece il regime del tiranno Erdogan etichetta come prostitute “carenti e indegne”. Non hanno mai imbracciato le armi per attaccare, solo per difendersi e difendere diritti inalienabili, puntualmente calpestati. Ma questo è un mondo che non si accorge della sofferenza altrui. Al contrario del giovane curdo Qandil che si getta tra fiamme non sue, al quale i suoi hanno insegnato che cosa voglia dire l’amore e il rispetto. “Ero molto preoccupata quando lui mi portò a casa – dice Nicol –, ma al nostro arrivo già sulle scale sua madre mi abbracciò ed entrambe scoppiammo in un lungo pianto. Mi tenne la mano per ore. Non conoscevo la loro lingua, ma ci sono cose che arrivano oltre le parole”.

E con poche parole Qandil ogni giorno, instacabile, dichiara il suo amore per lei.

Quelle più dolci se le sente dire in curdo: dlacam/anima mia, gulimen/fiore mio, anasacam/mio respiro. Al ritorno in Italia per chiederla in sposa si inginocchiò davanti al padre di Nicol, il quale acconsentì anch’egli frastornato da tutta questa poesia. Si sono sposati all’aperto, in giardino. I kebab fumanti, i balli, la sposa prima vestita di rosso per la cerimonia e poi di bianco al centro della sala: tutto, anche qui se rivisto al rallentatore, sembrava come in una pellicola di Emir Kusturica. E poi i doni della tradizione, portati dalle donne che danzano: il fuoco della passione, l’acqua della purificazione, l’oro dell’abbondanza. E infine Qandil e Nicol che si allontanano sembrando gli Innamorati a cavallo di Dariush, poeta e pittore iraniano che nelle sue opere fa affondare radici profonde nella mitologia persiana.

Come, forse, la storia d’amore tra il curdo Qandil e la dolce calabrese Nicol. E come in questo quadro anche nei versi del poeta gli amanti sono rapiti l’uno dall’altro, si abbracciano, si parlano senza parole. Respirano come una farfalla/sul bordo di una rosa/prima di partire.

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