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Antonia Paladino

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Giorno della Memoria: Antonia Paladino, la partigiana di Scilla che salvò gli ebrei

«Mia nonna la stimavo anche prima di scoprire quanti ebrei aveva salvato e non mi sorprese affatto sapere dettagliatamente cosa aveva fatto. Mi ha sempre educato a difendere i deboli, a non avere paura delle cose in cui credevo, mi ha educato al coraggio». Francesco Cuzzi Brancacci racconta sua nonna Antonia Assunta Paladino, la giovane medico partigiana che nel 1943 riuscì a sottrarre ai campi di concentramento molti ebrei italiani.

Tra questi anche la poetessa Lea Luzzati Segre, sfollata a Baldissero Torinese con la sua famiglia. «Mia nonna frequentò il ginnasio a Messina e in seguito avrebbe potuto occuparsi dell’azienda di famiglia – continua Francesco – ma la passione per la medicina ebbe la meglio su tutto il resto e così decise di andare a studiare a Torino. In quel periodo soggiornò in una pensione gestita dalle suore a Baldissero Torinese dove, dopo la laurea, riuscì ad allestire un ospedale nella struttura che le consentì di nascondere molti ebrei spacciandoli per feriti, e fornendo loro dei documenti falsi grazie alla collaborazione con lo zio, il colonnello Ernesto Drommi, che prestava servizio alla Direzione della Scuola di artiglieria e genio di Torino».

Drommi insieme a un altro parente di Antonia, il generale Francesco Paladino, di stanza a Piacenza, costituì un’associazione clandestina per trattenere in Italia i giovani soldati, facendoli passare per operai. Antonia si laureò in medicina il 9 luglio del 1943 ma non poté ritornare in Calabria perché gli americani sbarcarono in Sicilia e le comunicazioni con il Sud furono interrotte».

Una delle carte d’identità false procurate agli ebrei per non farli deportare

Per lei, dunque, costretta a rimanere al Nord e vedendo con i suoi occhi cosa stava accadendo, decise di avere un ruolo attivo nella lotta partigiana accanto ai giovani dell’Azione Cattolica. Nel 1943 la rete clandestina del colonnello Drommi fu scoperta dalle SS e lo zio di Antonia fu condannato alla fucilazione. Lei, pur di rivederlo un’ultima volta, raggiunse il quartier generale dei tedeschi ma non riuscì ad incontrarlo. È solo grazie all’intermediazione dell’arcivescovo di Torino, monsignor Maurilio Fossati, se il colonnello e i suoi uomini furono scambiati con trenta prigionieri tedeschi e liberati.

«Presi consapevolezza di chi fosse veramente mia nonna quando nel 2006 – avevo diciotto anni allora – andai a ritirare un riconoscimento per lei, da parte della Comunità ebraica di Torino – ricorda Francesco -. La storia dei documenti falsi me l’aveva già raccontata ma quando mi trovai davanti le persone che lei aveva salvato, mi fu subito chiaro quanto coraggio ci volesse per fare ciò che lei aveva fatto. I posti di blocco nazisti, la fucilazione di alcune persone alle quali aveva assistito e quei documenti falsi da portare dal comando dell’esercito regio fino all’ospedale per tentare di salvare delle persone che altrimenti sarebbero state deportate. Io le chiedevo spesso di raccontarmi gli anni del fascismo e lei non si tirava mai indietro. Il corso di medicina allora, era frequentato solo da due donne, che venivano spesso trattate da stupide. Mi raccontò, per esempio, che un giorno, durante una lezione di anatomia le fecero tenere in mano un cervello umano per diverso tempo, al fine di vedere quale sarebbe stata la sua reazione. Mia nonna conobbe anche Primo Levi ma non ho altre informazioni al riguardo. In quegli anni a Torino si incontravano tutti, anche i “partigiani bianchi”, i partigiani cristiani, e lei ne conobbe tanti perché la fede è sempre stata un faro nella sua vita».

La partigiana, sindaca, pediatra e poetessa originaria di Scilla

Antonia Paladino riuscì a tornare a Scilla solo nel 1946 e oltre ad esercitare la professione di medico pediatra, si avvicinò alla politica, quella vissuta tra la gente più umile, tra le file della Democrazia Cristiana. Cominciò ad interessarsi di alcuni problemi sociali e soprattutto prese a cuore la condizione della donna in Calabria. Da studiosa appassionata decise di specializzarsi anche in Psicologia clinica e iniziò a collaborare con l’istituto di Osservazione minorile del ministero di Grazia e Giustizia fino a diventare direttrice del Centro medico psicopedagogico dell’ente Nazionale per la protezione morale del fanciullo. Dopo l’incarico di delegata regionale della Democrazia Cristiana fu eletta nel consiglio nazionale del movimento femminile nel quale rimase per 25 anni. E nel 1952, realizzando un suo antico sogno, fu eletta sindaco di Scilla, una delle prime donne a rivestire questo ruolo in Italia.

«Sul piano politico – continua Francesco – la famiglia di mia nonna era abbastanza variegata: il padre era aderente agli ideali risorgimentali, mazziniani, mentre la madre era monarchica. Antonia, proprio per le sue idee fortemente innovative, a un certo punto, fu anche estromessa dalla Democrazia Cristiana ed ebbe un’amicizia molto intensa con l’ambasciatrice americana Boothe Luce che in seguito, per il suo Paese, ricoprì incarichi sempre più impegnativi paragonabili a un moderno segretario di Stato. Gli americani ebbero un ruolo fondamentale nella ricostruzione delle nostre città messe in ginocchio dalla guerra ma tentavano, anche, di imporre le figure politiche di riferimento. Con mia nonna, però, le cose andarono diversamente perché lei fu scelta dal popolo. Dopo che lei tornò da Torino, curò gratuitamente la sua gente, era un personaggio molto noto in paese, aveva fatto nascere anche molti bambini, e questo le fece guadagnare sul campo la fiducia delle persone».

Paladino riceve a Scilla nel 1953 Clara Boothe Luce

Nel 1953 il sindaco Antonia Paladino ricevette la visita dell’ambasciatrice Boothe Luce, che arrivava in Calabria per l’inaugurazione del villaggio Unrra, le case popolari, costruite con i fondi statunitensi e nel 1954 venne finanziata anche la ricostruzione della chiesa madre di Scilla. Antonia Paladino organizzò anche nella sala consiliare di Scilla, numerosi eventi culturali come la galleria d’arte alla quale aderirono molti artisti tra cui Guttuso, Marino, Omiccioli e Monteleone, autore, tra l’altro, della Madonnina del mare fatta collocare dal sindaco nella roccia del castello. Ma nonostante il suo impegno politico, l’amministrazione di Antonia durò appena due anni.

«A mia nonna – spiega Francesco – capitò addirittura di trovare animali morti sulla scrivania e fu una grande delusione per lei tutto questo. Fece anche parte dei probiviri della Democrazia Cristiana ma il suo essere donna la tenne fuori dalle decisioni importanti del partito. Molte delle sue idee venivano prese, copiate, ma nessuno poi le dava il giusto riconoscimento. Mio nonno Ermete Brancacci lo conobbe a Reggio Calabria, lui era pugliese ed era il direttore dell’Ufficio del Lavoro. A un certo punto decise di farsi trasferire a Pescara perché anche lui, oltre a mia nonna, aveva ricevuto delle minacce e così insieme lasciarono la Calabria. Ma mia nonna era una persona molto attaccata alle sue origini, al suo paese, e quando fu costretta ad andare via, trascorse gli ultimi dieci, dodici anni della sua vita, chiusa nella sua dimensione familiare, senza uscire, anche a causa di un’artrosi che la costrinse su una sedia a rotelle. Fu un vero dramma per lei abbandonare la sua terra anche se mantenne sempre i rapporti con le persone che le erano state più vicine. Non perse mai l’abitudine di parlare in dialetto e solo con questa lingua del cuore riusciva a rievocare leggende, storie come la pesca del pesce spada e soprattutto i fatti legati alla sua vita politica. E lo fece fino al 2008 quando morì».

Gli ultimi anni di Antonia Paladino lontana dalla sua amata Scilla furono dedicati alla scrittura e all’incanto che le procurava ancora, il ricordo della sua terra. A lei dedicò la raccolta di poesie “Alba e tramonto”. Per lei scrisse: «L’amore corre nel cuore come barca che altalena sull’onda. Il verde fogliame dei limoneti muove profumi di zagara, schiuma marina avvolge come bianca cipria osannante l’aria, affannosa di calore. E il cuore si ferma incantato sull’onda filtrata del caro ricordo di giovinezze trascorse».

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