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E’ morto a 89 anni il decano dei giornalisti della Locride con un passato all’Unità e da sempre voce del suo territorio
di ENNIO SIMEONE
PER parecchi anni Camillo Mazzone era stato per me soltanto quel volto fiero e schietto di ragazzo del Sud impresso sulla foto incollata al tesserino color amaranto di corrispondente dell’Unità da Grotteria, uguale alla mia di corrispondente dell’Unità da Avellino. Poi, quando nel 1958 fui chiamato a Roma con il ruolo il redattore delle pagine di “Cronache del Mezzogiorno” quella immagine era diventata anche una voce, tanto familiare che mi sembrava ormai superfluo l’avviso della centralinista che la precedeva: “In linea il corrispondente da Grotteria”. Il compagno Mazzone non si sprecava in particolari quando chiedeva spazio per dettare via telefono allo stenografo una notizia o per verificare con il redattore se un pezzo mandato la sera prima a Roma per “fuori sacco” era arrivato e se sarebbe stato pubblicato l’indomani.
Aveva solo due preoccupazioni: la prima era quella di far costare il meno possibile la telefonata al giornale del partito (“sono soldi sudati dei compagni”), la seconda era quella di comunicare il numero di copie dell’Unità da far mandare in più quel giorno a Grotteria per diffonderle. Perché Camillo, come tanti di noi giornalisti del giornale fondato da Antonio Gramsci e diretto allora da Pietro Ingrao e poi da Alfredo Reichlin, da Aldo Tortorella, da Davide Lajolo, da Gian Carlo Pajetta, da Giuliano Barca, il “nostro giornale” lo diffondevamo anche vendendolo per strada o casa per casa: un compito ancor più assiduo per chi, proprio come Camillo, operava in un piccolo centro, soprattutto al Sud. E se sollecitava la pubblicazione (e lo faceva senza sconti, persino con una certa perentorietà) era perché quei suoi articoli avevano sempre un obiettivo da perseguire, nell’interesse di una categoria di lavoratori o di una realtà territoriale.
Passarono altri anni prima che quella voce mi si rifacesse sentire, sempre gagliarda e combattiva. Fu agli inizi del 1970, quando mi toccò seguire per un paio di mesi la fase più drammatica della “rivolta” di Reggio: un breve saluto e alcuni consigli che avevano il sapore della raccomandazione a non cascare nel tranello in cui cascarono anche alcuni illustri inviati di altrettanto illustri testate. Poi di nuovo le nostre strade si separarono.
Mai avrei immaginato che 27 anni dopo ci saremmo ritrovati, per un imprevedibile caso della vita, a lavorare di nuovo insieme in Calabria. Ma, soprattutto, che ci saremmo visti da vicino, e che ci saremmo potuti abbracciare, stringerci la mano, e parlare, passeggiando per le strade di Gioiosa, ricordando, rievocando. E rimpiangendo gli anni che avevamo vissuto in un passato ormai lontano. Ma soddisfatti di poter dare una mano al successo di un giornale, questo giornale, al servizio della Calabria e del Sud, con lo stesso spirito, mi assicurano, che ha animato Camillo fino all’ultimo giorno della sua vita, lasciando una grande eredità morale alla moglie Giuditta, ai figli Salvatore, Achille e Laura, e ai suoi 7 nipoti (al più piccolo dei quali, Federico, dedicava particolarmente negli ultimi tempi le sue attenzioni di nonno). Ai quali va il mio abbraccio commosso.
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