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REGGIO CALABRIA – Nino Maressa ha lasciato il Ros e Reggio Calabria dal 2009, ma la “mala vita” del raggruppamento c’è l’ha tatuata nel cuore. E’ nato a Palizzi, ha lavorato in riva allo Stretto per anni – stringendo le manette ai polsi a boss di primo piano come Giuseppe Morabito o Gregorio Bellocco – ma adesso presta servizio in una tranquilla stazione in riva al mare della Versilia. 

A 39 anni è uno dei più esperti marescialli dell’Arma operativi in tutta Italia ed ha deciso di scrivere un libro sulla sua esperienza professionale, per ricacciare al mittente ogni possibile critica sul suo operato o su quello dei suoi colleghi. Adesso, però, si trova al centro di un’attenzione mediatica inaspettata. 

Nelle pagine del volume scritto a quattro mani con Flavia Piccinni, Nino Maressa, che è figlio di un carabiniere, ha lasciato aperti molti dubbi sulla cattura della “primula rossa” della ’ndrangheta, facendo intendere una sorta di trattativa fra lo Stato, o spezzoni dello stesso, e la mafia, che avrebbe garantito per decine di anni la fuga del boss di Casalinuovo di Africo. 

Su questa “verità” adesso i vertici dell’Arma pare vogliano vederci chiaro. Tutto sarebbe scritto nelle carte del faldone chiuso il 18 febbraio del 2004 con la cattura, nelle campagne di Santa Venere, di uno dei capi indiscussi della ‘ndrangheta calabrese. Ci sarebbero dati di fatto difficilmente smentibili. Anche l’intercettazione registrata al telefono di casa Morabito, a poche ore di distanza dal blitz, nella quale la figlia del Tiradritto si sfogherebbe con una conoscente, prefigurando un mancato rispetto degli accordi sottoscritti negli anni novanta.

Un aspetto investigativo che, forse, non sarebbe stato indagato in maniera approfondita. Cosa ha frenato per anni la cattura di Giuseppe Morabito? Cosa ha ritardato il blitz di contrada Santa Venere? Il maresciallo Maressa non pare essere in grado di spiegarselo. Forse un “sistema” è entrato in azione in terra di Calabria, per garantire assetti precostituiti o per evitare un’esplosione improvvisa di violenza: una guerra fra ’ndrangheta e Stato condotta a colpi d’arma da fuoco. 

Di certo, molti dei suoi compagni della squadra “Folgore” sono stati trasferiti in altra sede e, in questi anni, tante polemiche sono scoppiate attorno ad uno dei gruppi speciali dell’Arma che, in provincia di Reggio Calabria, ha messo a segno numerosi colpi contro la criminalità organizzata.  Il maresciallo Maressa ha deciso di seguire la moglie in Toscana, ma non ha mai dimenticato la Calabria e, soprattutto, i suoi compagni di viaggio o la “mala vita” condotta sotto le bandiere del Ros, in un periodo in cui in città quel lavoro poteva sembrare contro natura e la lotta alla mafia non aveva raggiunto la sua maturità. Il suo lavoro appare come una sorta di auto difesa nei confronti di mal pensanti o male lingue che, spesso, con poche parole rischiano di infangare lunghi anni di successi e sacrifici.

 

 

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