La lettura della sentenza su Mimmo Lucano
6 minuti per la letturaHo scorso l’interminabile sentenza che spiega i motivi della condanna inflitta a Mimmo Lucano dai giudici della sezione penale del Tribunale di Locri. Ho impiegato nella lettura un tempo spropositato che mi ha permesso di leggere con serenità le argomentazioni del collegio giudicante. Confesso però di esserne rimasto disorientato quanto lo sono stato al momento della lettura del dispositivo.
Non entro nel merito di uno stile involuto che per fortuna appartiene a pochi magistrati. Non riesco a rendermi conto come a Mimmo Lucano, trovato “senza un euro in tasca”, mosso dalla “pura passione”, “un modello e un simbolo di integrazione per tutto il mondo” – sono frasi tratte testualmente dalla sentenza – sia stata poi inflitta una condanna a 13 anni e 2 mesi. A chi come me lo ha in questi anni ammirato per aver affrontato con lungimiranza un tema planetario, non resta che aspettare le successive sentenze che in Italia per fortuna possono essere tre. Anche se bisogna per onestà aggiungere che la Corte di Cassazione ha già affermato nell’aprile del 2019 che “mancano i comportamenti fraudolenti di Lucano”.
Ma chi è Lucano? Chiedo scusa se, tentando di fissare le vicende esistenziali del condannato, sono costretto a fare anche alcuni riferimenti autobiografici. L’ho conosciuto quando ero presidente della regione Calabria. Me ne parlò con insistenza una mia figlia, descrivendomi Riace come un posto incantato che il sindaco Lucano era riuscito in pochi anni a creare. Un posto, dove persone provenienti da diversi paesi del mondo vivevano in armonia con gli abitanti del luogo.
Divorato dalla curiosità, ma anche con un certo disincanto di fondo, intraprendo pochi giorni dopo, il viaggio per Riace. Il sindaco mi accoglie con il vestito nuovo alle porte del paese e mi invita a seguirlo. Mano a mano che ci addentriamo nel borgo, mi si para dinanzi un altro mondo. Le strade sono pulite, tutto sembra in ordine, non una carta per terra, ragazzi del luogo giocano al pallone tra strepiti incessanti con coetanei di colore.
Ad un certo punto a uno di questi ultimi, oltre a sfuggire nello stop il pallone dal piede, sfugge di bocca un’imprecazione in dialetto calabrese. “E’ un afgano” mi dice Lucano. Me lo dice come fosse naturale che un afgano parli il mio dialetto. Non riesco a credere alle mie orecchie. Più avanti vedo bimbe, sempre di colore, che aiutano le proprie mamme nelle botteghe artigiane che gestiscono. Lucano mi dice che le persone accolte appartengono a 26 nazionalità diverse. Nel paese, munito di un ambulatorio medico, alcune case, chiuse da anni, appartenenti a emigranti del luogo, partiti in anni lontani, sono state, sotto la spinta di Lucano, ristrutturate alla bell’e meglio e concesse in uso ai nuovi migranti. All’interno del borgo, non privo di una sua bellezza, lavorano in varie attività 100 persone, che non è poco in un paesino calabrese di 1700 anime. La comunità del luogo si avvale di un sistema di smaltimento dei rifiuti che sembra, con i suoi asinelli, appartenere al mondo prebellico.
Una piccola “Città del sole” il cui autore, Tommaso Campanella, è nato ad un tiro di schioppo da qui.
In questo posto trascorro due ore importanti della mia vita. Sulla via del ritorno, ancora un po’ emozionato e anche un po’ segnato per la scoperta tardiva, decido che mi occuperò politicamente di questo paese e del suo sindaco sognatore. Sono anni difficili per la regione che mi ha eletto presidente e sono difficili anche per la mia vita a causa di alcune minacce anonime che ogni tanto ricevo.
A pochi mesi dall’inizio dell’attività politica viene ucciso il vicepresidente dell’Assemblea regionale, Franco Fortugno, mio amico. Un trauma enorme. A leggere i giornali del tempo si ha la netta impressione che la criminalità organizzata calabrese si stia espandendo dappertutto. Nell’Italia del Nord la fa da padrona. Nei fatiscenti ospedali calabresi trovano la morte, uno via l’altro, alcuni ragazzi. Ricordo lo strazio dei genitori. Uno di loro in chiesa ai funerali mi dice di fare fatica ad accettare le mie condoglianze.
Una mortificazione che forse non merito ma che comprendo. Sui calabresi s’infittiscono stereotipi pesanti che spesso mi procurano un dolore sordo, incomunicabile nella sua profondità. Mi accorgo che stiamo diventando un territorio maledetto. L’immagine di Lucano comincia a balenarmi dentro come antidoto al male del mondo che sembra abbattersi impietoso sul territorio dove sono nato. Intanto il giornale americano Fortune lo annovera –unico italiano – tra i 50 più importanti uomini del pianeta.
Convinco il grande regista Wim Wenders a visitare Riace. Anche lui sulle prime riluttante, alla fine si convince e s’innamora del sogno realizzato su quel paesino adagiato sul mare Jonio. Un mare su cui hanno veleggiato nel corso della sua storia millenaria utopie e simboli classici. L’intellettuale tedesco decide di girare sulla vita del sindaco e su quel paesino sperduto un cortometraggio, intitolato il “Volo” che come regione cofinanziamo insieme ad un privato. Alla sua “prima” a Villa Borghese a Roma si raduna il meglio della cultura calabrese. Una breve digressione. Quando di recente Wim Wenders viene a conoscenza della condanna inflitta a Lucano, afferma incredulo con ironia “ Al mio prossimo viaggio in Italia mi aspetto di leggere dell’arresto di Papa Francesco”.
Con il passare dei mesi scopro che altri paesini della nostra regione praticano l’accoglienza. Se si eccettua la vergogna delle tendopoli e del lavoro nero di Rosarno, noi calabresi siamo tra i pochi al mondo che soccorrono i migranti. Dal Crotonese alla Locride. Mi decido a questo punto a proporre, prima in giunta, poi in Consiglio regionale una legge sull’accoglienza che prenda a modello la realtà costruita in pochi anni a Riace. Nel 2009, dopo un mio breve appello alle opposizioni in un’Assemblea regionale, spesso rissosa, la legge regionale sarà votata all’unanimità. Talvolta la storia del passato con i suoi percorsi silenziosi riesce a unire la politica molto di più di quanto non avvenga nel presente.
Del resto, fino a 40 anni fa in Calabria una famiglia su due appariva segnata dalla ferita dell’emigrazione. Un’esperienza che segna tutte le famiglie dell’intero pianeta di un sentimento comune. C’è un verso di Orazio che, quel sentimento, lo richiama in forma superba nella lingua originaria, che è appunto il latino, ma anche in italiano suscita vibrazioni profonde. “Quelli che attraversano il mare cambiano il cielo, non l’anima”. Ma, di là di quel destino comune, c’è qualcosa, nell’attitudine calabrese a soccorrere chi brancola tra i flutti, che affonda le sue radici nella notte dei tempi. Rimanda ad un istinto primordiale, piuttosto diffuso che conferisce un’aureola di sacralità a chi arriva da lontano. Specie se inatteso. D’altra parte la terra delle origini era di tutti. L’appartenenza stabilita dal valore del rogito è una sovrastruttura successiva.
Il problema delle migrazioni sarà (insieme a quello della vita in estinzione del nostro pianeta) il tema dei temi di questi anni a venire. I governi delle varie nazioni e la stessa Europa lo sottovalutano. Lucano lo ha anticipato. Ho sperato a lungo che coloro che dovevano giudicarlo facessero tesoro di quell’eterno irrisolto conflitto tra legge e coscienza, tramandatoci dal mito della Grecia classica. Purtroppo non è andata così.
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