Marina Tornatora e Ottavio Amaro coordinano il laboratorio della facoltà di Architettura di Reggio sui beni confiscati
INDICE DEI CONTENUTI
- 1 Come può il riuso dei beni confiscati in Calabria contribuire alla rigenerazione urbana e che ruolo può avere l’università?
- 2 Cosa pensate di una recente proposta del consiglio comunale di Casalgrande, in provincia di Reggio Emilia, che chiede che il Parlamento si attivi per una revisione dell’intera procedura di assegnazione dei beni volta a evitare l’affidamento quando sono ormai degradati e il riutilizzo ne risulti dunque troppo oneroso?
- 3 L’ecomostro di Melissa fu confiscato in via definitiva nel 2012. Già quando era stato sequestrato, nel 2009, era inutilizzato da tempo. Alla fine, dopo che, nel corso di un complesso iter, erano state prese in esame anche alcune ipotesi di destinazione a fini sociali, è stato demolito anche perché realizzato abusivamente e al suo posto dovrà sorgere un’area camper per i turisti. La prima ordinanza di sospensione dei lavori con contestuale diffida a demolire risale addirittura a 45 anni fa ma la pratica è rimasta a lungo inevasa. In questo caso riqualificare il bene sarebbe risultato peraltro estremamente oneroso e dopo 44 anni non c’era altra soluzione che far implodere quell’orrendo palazzone a sei piani, rendendo finalmente visibili filari di vigneti. Il tema Palazzo Mangeruca è stato peraltro al centro di tesi di laurea da voi seguite. Quali soluzioni erano state prospettate dai dottorandi?
- 4 Quando si demolisce un bene confiscato, a parte il caso limite di Melissa, è una resa da parte dello Stato?
Dall’università di Reggio Calabria il progetto per elaborare una strategia e le linee guida della Regione sul riutilizzo dei beni confiscati e sottratti alla criminalità organizzata
REGGIO CALABRIA – Dall’estetica della violenza a quella della bellezza riconquistata. Da segno del brutto a patrimonio per la collettività. Da bruco a farfalla. È la metamorfosi dei beni confiscati a cui puntano i professori Ottavio Amaro e Marina Tornatora del Laboratorio di ricerca Landscape_inProgress, del dipartimento dArTe dell’università Mediterranea di Reggio Calabria, che ha stipulato con la Regione una convenzione per l’elaborazione di linee guida per il riutilizzo dei patrimoni sottratti alla criminalità organizzata. I primi risultati di questo lavoro, che prosegue su scala regionale quello già avviato dal laboratorio di ricerca nella Città Metropolitana di Reggio Calabria, li hanno presentati nel corso della prima Conferenza nazionale sui beni confiscati incentratasi sul tema “Da problema a opportunità”. Ne abbiamo parlato con i due professori associati.
La Calabria è la terza regione per numero di beni confiscati alla criminalità organizzata. Ma su oltre 5mila immobili poco più di 3mila risultano destinati dall’Agenzia nazionale per le finalità istituzionali e sociali e soltanto 1967 quelli dati in gestione. In molti casi i patrimoni tolti alle mafie marciscono senza che nessuno intervenga. Ai tempi lunghi del sistema giustizia si aggiungono quelli burocratici e il fatto che spesso i Comuni non hanno interesse a richiedere l’assegnazione dei beni confiscati. La conseguenza è che molti di questi beni continuano a deturpare i paesaggi rimanendo inutilizzati in taluni casi per decenni.
Come può il riuso dei beni confiscati in Calabria contribuire alla rigenerazione urbana e che ruolo può avere l’università?
Amaro: «Lavoriamo dal 2015 sul tema, per questo la Regione Calabria, in particolare l’assessore Filippo Pietropaolo che ha la delega sui beni confiscati, ci ha scelti come interlocutori. I problemi di ordine politico come quello dei ritardi vanno oltre la questione della ricerca, che è il nostro campo. Un altro problema che questa domanda pone è legato all’idea di valorizzazione del bene e alla necessità di investimenti. L’Anbsc, che si sta sempre più strutturando, non può più essere soltanto un ente di puro censimento o di passaggio di carte ai Comuni.
La problematica per quantità e qualità del patrimonio da riutilizzare presuppone un impegno nazionale, non solo di azioni politiche ma anche finanziario. Il riuso dei beni in Calabria, in particolare, con 5mila beni confiscati, può contribuire a creare momenti di rigenerazione sia urbana che sociale. Il lavoro che stiamo facendo con la Regione ha la finalità di implementare aspetti conoscitivi e istruttori ma anche di stabilire linee guida e fornire strumenti legati a una programmazione finanziaria».
Tornatora: «La rigenerazione dovrà essere a diversi livelli, nelle periferie e nei tessuti urbani dei centri storici. Ma pensiamo anche ai terreni confiscati, che sono tantissimi e, lasciati in abbandono, pongono una serie di problematicità. La questione del ritardo va affrontata non solo come questione giuridica, perché l’approccio finora è stato solo giuridico. L’Anbsc, ad esempio, non ha un ufficio tecnico, ma proprio i tecnici possono fare quel lavoro che permetterebbe ai Comuni una strategia più ampia. I Comuni ricevono una lista di beni ma per sviluppare una strategia ampia non basta un mero elenco. Spesso sono le associazioni che propongono la destinazione, ma il Terzo Settore dovrebbe confrontarsi anche con le esigenze che il Comune ha, è necessario un dialogo più diretto».
Cosa pensate di una recente proposta del consiglio comunale di Casalgrande, in provincia di Reggio Emilia, che chiede che il Parlamento si attivi per una revisione dell’intera procedura di assegnazione dei beni volta a evitare l’affidamento quando sono ormai degradati e il riutilizzo ne risulti dunque troppo oneroso?
Amaro: «L’odg approvato dal Comune emiliano è importante perché pone una questione nazionale, chiede a livello istituzionale un impegno maggiore. L’assegnazione ai Comuni però non si può limitare alla relazione con gli enti locali ma andrebbe coinvolto meglio il Terzo Settore che utilizza i beni e adotta prassi più veloci. La legge potrebbe aiutare processi che vedano coinvolti più direttamente gli enti del Terzo settore. Pensiamo al bando del Pnrr, dal quale peraltro sono stati stornati fondi per i beni confiscati. Il Terzo settore protestò per l’esclusione della possibilità di partecipare direttamente».
Tornatora: «Il riuso deve portare a una trasformazione del bene ma anche del contenuto. Contenuto e contenitore dovrebbero andare di pari passo e questo avrebbe un valore strategico, perché il bene confiscato dev’essere visto non come reazione ma come prassi proprio per la quantità di beni distribuiti non solo in Calabria o in Italia ma in Europa. Ecco perché c’è necessità di interventi con passaggi più veloci in una visione strategica e ampia. Soltanto così la trasformazione del bene sarà contestuale all’uso che ne verrà fatto».
Amaro: «Il nostro lavoro si svolge in un dipartimento di architettura, lavoriamo cioè su progetto e architettura, ma questi edifici diventano bene collettivo quando la loro trasformazione viene riconosciuta. Attraverso una metamorfosi, da segno del brutto in senso simbolico ed estetico a segno di una bellezza da ricostruire e riconquistare. Chiediamo agli studenti di essere protagonisti di questa metamorfosi. Pensiamo anche a un restauro del paesaggio, ai vigneti della costa jonica nel caso dell’ecomostro di Melissa, cerchiamo di non creare non luoghi controproducenti. Nell’ambito del laboratorio abbiamo monitorato anche l’ecomostro. Una studentessa originaria di quei luoghi propose una sperimentazione progettuale su questo edificio facendo ipotesi suggestive, come quella di riconfigurarlo facendone un centro antiviolenza, con un padiglione da dedicare a Treccani, un grande artista che ha lasciato un segno a Melissa».
Tornatora: «La riconfigurazione di spazi presuppone sempre una progettualità. Quello dei beni confiscati è un terzo patrimonio, a disposizione dei Comuni, che dovrebbero sviluppare progettualità sinegicamente col Terzo Settore che spesso ha il polso delle esigenze della comunità. Pensiamo al Welfare Lab (menzione speciale nell’ambito del Premio In/Architettura Calabria nella categoria Riqualificazione edilizia all’intervento su progetto a cura del Laboratorio Landscape_inProgress, coordinato dai professori Amaro e Tornatora del dArTe-UniRc, ndr) che ricostruisce spazi di welfare per la comunità reggina, mettendo assieme tante attività di supporto per infanzia, anziani, persone con disabilità».
Quando si demolisce un bene confiscato, a parte il caso limite di Melissa, è una resa da parte dello Stato?
Amaro: «Stiamo elaborando un decalogo di linee guida nell’ambito dell’intesa con la Regione. Quando, come e perché si demolisce. Se, ad esempio, il bene confiscato è vicino a un fiume o in area vincolata si demolisce, se ci sono condizioni strutturali e urbane bisogna fare di tutto per recuperalo e rimetterlo in circolo economicamente, anche se realizzato abusivamente occorre capire se può rientrare in una strategia di riuso che non comprometta il territorio. Demolire non è una resa tout court, cancellare questi segni, riportare alla tabula rasa il potere mafioso è un gesto che va apprezzato, di coraggio. Non dimentichiamo i terreni, poi, la cui valorizzazione potrebbe incentivare l’occupazione giovanile nell’ambito del sistema cooperativistico e rilanciare l’economia rurale legata ai luoghi».
Tornatora: «Non bisogna avere un approccio ideologico ma tecnico. A volte il bene è talmente danneggiato che va demolito, altre volte è anti economico demolirlo. Non bisogna essere a favore o contro la demolizione. Inoltre, c’è anche la microdemolizione, che può essere necessaria per un riuso. Nel caso del bene gestito dal consorzio Macramè (confiscato all’ex re dei videopoker Gioacchino Campolo, ndr), su un edificio dei primi Novecento abbiamo demolito alcuni corpi abusivi. Anche la demolizione va pensata come un progetto. Bisogna capire a cosa porta e se verranno valorizzati i siti in particolari contesti paesaggistici».
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