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REGGIO CALABRIA – Secondo l’inchiesta “Propaggine”, era guidata da una diarchia la ‘ndrina “locale” che operava a Roma da alcuni anni dopo avere ottenuto il “via libera” dalla casa madre in Calabria.
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A capo della struttura criminale c’erano Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro, entrambi appartenenti a storiche famiglie di ‘ndrangheta originarie di Cosoleto, centro in provincia di Reggio Calabria. Le indagini hanno evidenziato come fino al settembre del 2015 non esistesse una ‘locale’ operante a Roma, anche se sul territorio cittadino c’erano numerosi soggetti appartenenti a famiglie e dediti ad attività illecite. Nell’estate del 2015 Carzo avrebbe ricevuto dall’organo collegiale posto al vertice dell’organizzazione unitaria (la Provincia e Crimine) l’autorizzazione per costituire un struttura locale che operava nel cuore di Roma secondo le tradizioni di ‘ndrangheta: riti, linguaggi, tipologia di reati tipici della terra d’origine. Il gruppo operava su tutto il territorio romano con una gestione degli investimenti nel settore della ristorazione (locali, bar, ristoranti e supermercati) e nell’attività di riciclaggio di ingenti somme di denaro.
Nei confronti degli indagati si contesta, tra gli altri, l’associazione mafiosa, cessione e detenzione di droga, estorsione e fittizia intestazione di beni.
Il legame tra la “casa madre” di Sinopoli – sottolineano gli inquirenti – e la propaggine romana è stato sempre attivo e gestito con estrema cautela: le indagini hanno svelato che, secondo una strategia ben specifica, i due capi del locale di ‘ndrangheta romani limitavano al minimo gli incontri di persona con i vertici calabresi, facendoli coincidere con eventi particolari, quali matrimoni o funerali, in occasione dei quali si sarebbero svolti incontri fugaci ma risolutivi; nei casi di estrema urgenza, poi, gli incontri sono stati concordati mediante l’intermediazione di “messaggeri”. Alcuni dei destinatari della misura sono stati già condannati per l’appartenenza alla cosca Alvaro con sentenze passate in giudicato.
Sono state eseguite perquisizioni nelle abitazioni degli indagati per l’acquisizione del materiale di rilievo probatorio. Nel corso dell’attività di indagine, svolta dalla Direzione Investigativa Antimafia con il supporto della rete @ON finanziata dall’Unione Europea, è stato avviato un coordinamento investigativo fra le due Dda interessate. Il filone romano dell’inchiesta ha portato all’ esecuzione ad un’ordinanza applicativa di misure cautelari nei confronti di 43 persone (38 in carcere e 5 agli arresti domiciliari).
A Roma «una propaggine di là sotto»
«Noi a Roma siamo una propaggine di là sotto». E’ quanto affermano alcuni indagati in un’intercettazione nell’ambito della maxi-operazione che, su disposizione della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma e della Dia ha portato a 43 arresti tra Roma, Lazio e Calabria, nei confronti di quella che è considerata la prima locale ufficiale di ‘ndrangheta nella Capitale.
Eseguito anche un sequestro preventivo di urgenza di una serie di società e imprese individuali. A capo della ‘ndrina di Roma c’erano Vincenzo Alvaro e Antonio Carzo: proprio Carzo nell’estate del 2015 ha ricevuto dalla casa madre della ‘ndrangheta l’autorizzazione per costituire una locale nella Capitale, retta dallo stesso Carzo e da Alvaro. Tra gli arrestati ci sono anche un commercialista e un dipendente bancario.
Riti e linguaggio esportati
Riti e linguaggio della ‘ndrangheta erano stati esportati dal clan Alvaro nella Capitale. «L’operatività delle locali di Sinopoli e Cosoleto – scrivono gli inquirenti – è risultata fortemente improntata al rispetto delle doti di ‘ndrangheta; l’osservanza dei riti e dei linguaggi tradizionali è stata esportata anche nella capitale, dove la ‘ndrangheta, ed in particolare la cosca Alvaro, si è trasferita con la propria capacità di intimidazione ed ha creato una stabile ed autonoma struttura criminale».
Il boss pronto a fare la guerra
«Siamo una carovana per fare la guerra». Lo afferma il boss Vincenzo Alvaro, a capo della ‘ndrina di Roma insieme con Antonio Carzo, in una frase intercettata nell’ambito dell’inchiesta.
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