Il luogo del ritrovamento del cadavere
3 minuti per la letturaSAN FERDINANDO – È la notte compresa tra il 26 ed il 27 giugno quando viene rinvenuto, riverso a terra in una pozza di sangue, il corpo esanime di Domenico Pangallo tra le vie centrali di San Ferdinando (LEGGI LA NOTIZIA).
L’uomo è originario dell’aspromontana Roccaforte del Greco, dove quel cognome rappresenta la storia di una delle locali cosche di ‘ndrangheta.
Pochi giorni dopo, il 29 Giugno, presso la Tenenza dei Carabinieri di Rosarno, a costituirsi volontariamente quale esecutore materiale dell’omicidio sarà Giuseppe Cacciola (LEGGI LA NOTIZIA).
Anch’egli porta il cognome di una delle ‘ndrine più conosciute e potenti di Rosarno ed è strettamente imparentato con alcuni riconosciuti capo cosca locali.
È figlio di Gregorio Cacciola, fratello di Michele Cacciola. Quest’ultimo è il padre di Maria Concetta Cacciola (SCOPRI I CONTENUTI SULLA SUA MORTE), ex collaboratrice di giustizia costretta dai familiari, poi condannati in Cassazione, ad ingerire acido muriatico per ripulire dal curriculm criminale di famiglia l’onta del pentimento.
Sulle tracce di Giuseppe si erano attivati i militari del nucleo investigativo di Gioia Tauro che, su disposizione della procura di Palmi, procedevano a notificare allo stesso Cacciola un decreto di fermo di indiziato di delitto già il 27 Giugno.
Il 33enne consegnatosi alle forze dell’ordine avrebbe, secondo le prime indiscrezioni, attirato con l’inganno il Pangallo presso la propria abitazione poiché sospettava sussistesse una liason amorosa-amicale virtuale tra questo e la propria consorte. Questo il casus belli alla base del piano premeditato di Cacciola che, una volta visto arrivare Pangallo, l’avrebbe colpito ripetutamente e violentemente fino a giungere al tragico epilogo. Un delitto d’onore è quello che sembra delinearsi sullo sfondo di questa vicenda di cronaca nera.
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Nei giorni successivi a quanto sopra riportato abbiamo fatto un sopralluogo per capire di più.
«Non uscivano spesso qua in zona, si può dire che non li conosciamo» ci raccontano per strada rispondendo alle domande circa qualche informazione su Cacciola e moglie. Dopo un laborioso girovagare per le viuzze che da Via Panucci, in prossimità dell’incrocio con Via Palermo (luogo del delitto e casa di Cacciola ndr), si diramano verso il lungomare, riusciamo a parlare con Zaira La Torre, moglie di Giuseppe Cacciola.
«Mio marito non voleva ucciderlo, voleva solo dargli una lezione perché mi assillava su Facebook» tanto che, prova ad argomentare la donna, «accortosi di come stavano degenerando le cose ha provato a rianimarlo».
Pare che le cose, tra moglie e marito, non andassero a gonfie vele da qualche tempo. La casa dove vivevano i due consorti e figlioletta è, ad oggi, sottoposta a sequestro penale. La donna aveva trovato riparo, dopo l’arresto del marito, presso un vecchio stabile in stato d’abbandono che, fino a qualche decennio prima, era stato un ristorante di proprietà del defunto padre. Il passato è d’obbligo poiché, a quanto pare, Zaira non si troverebbe più a San Ferdinando. A confidarcelo è la sorella che però non si spinge a dire oltre.
Le ipotesi ora sono varie e spaziano dalla verosimile possibilità che abbia scelto di prendere e partire altrove per cambiare aria, fino ad arrivare all’eventualità che possa essere entrata in programma di protezione testimoni o ancora che possa aver deciso di recarsi in qualche comunità lontana da San Ferdinando. Sono solo ipotesi che fanno comunque da sfondo a questa tragica vicenda che racconta di ‘ndrangheta e codice d’onore.
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