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La zona interessata dall'alluvione

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AFRICO (REGGIO CALABRIA) – Per almeno cinque sei giorni, tra il 14 e il 19 ottobre del 1951, sulla Calabria jonica cadde più acqua di quanta solitamente cade in un intero anno. Paesi come Natile, Platì, Careri, San Luca, Samo e più in là i centri verso la zona dell’Allaro e dello Stilaro, poi ancora Nardodipace ed altri paesi verso le Serre furono devastati, si contarono una settantina di morti e circa 5 mila senza tetto.

Ma i due centri che sono, a ragione, considerati l’emblema di quell’alluvione sono Africo e la sua frazione Casalnuovo. Per loro e per la loro gente la storia cambiò radicalmente.

Le montagne dell’Aspromonte furono lasciate alle spalle, iniziò un lungo esodo attraverso i paesi della provincia, dentro le caserme dismesse e le scuole che ospitarono gli sfollati: a Bova, a Melito Porto Salvo, a Gambarie d’Aspromonte e soprattutto a Reggio Calabria. Ricorda bene quei giorni la signora Maria Nocera che all’epoca aveva 19 anni e che ora vive col marito ad Africo Nuovo, nel rinato paese, sullo splendido scenario di Capo Bruzzano. «Mi ero sposata in quell’anno ed abitavo nel paese, mio marito aveva una casa là, i miei invece stavano in contrada Luca, nella campagna tra Africo e Casalnuovo».

Maria Nocera

Inizia così il suo racconto accogliendoci assieme a suo genero Angelo Gligora, docente di francese in pensione. Con l’ausilio di alcune vecchie foto presenta la sua famiglia: il padre Francesco Nucera («Per uno sbaglio io sono stata registrata Nocera, con la O»), la madre Giovanna Chirico, le sue tre sorelle più piccole di lei, Carmela, Giuseppa e Annunziata). Il padre faceva l’agricoltore, ma gestiva anche un mulino ad acqua alimentato dalla fiumara di Luca; in casa coltivava pure il baco da seta e possedeva numerosi capi di bestiame. Stavano bene, avevano a servizio anche un operaio che li aiutava nei lavori quotidiani.

«Avevamo un grande giardino e una casa grande dove coltivavamo il baco da seta, aiutavo anche io mio padre. La casa era su una collina distante dalla fiumara che non si era spostata mai dal suo argine».

Con la mente torna alla sera precedente la catastrofe: «Fu una chiamata del Signore, mio padre quella sera, prima che si facesse completamente buio, aprì la finestra vide il cielo assai scuro e disse: sapete che facciamo? andiamo in paese da mia sorella. Chi diceva sì, chi no; niente da fare, li ha convinti o obbligati dicendo: andiamo, copritevi e andiamo, camminate. Quando sono arrivati in paese era ormai buio».

Nella notte si scatenò il diluvio e fu una notte da incubo. La signora Maria fa una pausa, poi riprende con i ricordi: «Quando arrivò il mattino, l’acqua si era portata via tutto; le mucche, le capre, i maiali, tutto. È rimasta viva solo una mucca, non sappiamo come sia scampata. Si è portata via il raccolto di tutto l’anno, la biancheria, la nostra dote, si è portata via tutto. Si è portata via la casa, il mulino. Immaginate come mi sono sentita io quella mattina, ho pensato che si era portata via pure i miei. Poi mi hanno detto che avevano visto mio padre mentre andava a cercare gli animali».

Così si è tranquillizzata, ma era grande il dolore per la morte di tre abitanti di Africo e di sei di Casalnuovo: «Li conoscevo tutti: due, marito e moglie sono morti in casa annegati nell’acqua, il loro figlio è riuscito ad arrampicarsi sul tetto e a salvarsi, ma non ha potuto aiutare i genitori; un’altra ragazza che aveva forse quindici o diciassette anni, era sola nella casa che è stata sotterrata da una frana; non ha avuto tempo di scappare; sua madre e suo padre con altri fratellini erano in campagna, dove avevano una casetta, perché era tempo di raccolta del granturco e dei fagioli e si salvarono. A Casalnuovo invece morirono sei persone».

Le fragili case cedevano sotto la violenza dell’acqua straripata dalle fiumare e sotto la forza d’urto delle frane che si si portavano dietro terra, fango, pietre ed alberi sradicati. La maggior parte della gente cercò rifugio nei luoghi più sicuri, negli edifici più nuovi: la chiesa e le scuole. «Già il giorno appresso siamo partiti per Bova, a piedi».

L’esodo, dunque, iniziò già il giorno dopo, bisognava abbandonare il paese le cui case erano nella stragrande maggioranza inagibili. A Casalnuovo, invece, le case ressero, ma tutto il territorio circostante fu messo sottosopra. «Ci hanno portati prima a Bova, dove siamo rimasti tra gli otto e i dieci giorni, poi a Gambarie d’Aspromonte nel Grand Hotel; faceva freddo, il 18 dicembre ci hanno fatti scendere a Reggio Calabria e ci hanno sistemati un po’ per parte, chi in una caserma, chi in un’altra; in quelle caserme vuote che erano state utilizzate durante la guerra. Io e la mia famiglia eravamo nella Caserma del quartiere Trabocchetto.

Alcune famiglie che avevano le greggi e che non erano state colpite dall’alluvione sono rimaste sulla montagna per diversi anni, anche alcuni commercianti. Sopra del paese, a Carrà, avevano costruito venti alloggi e li diedero alle famiglie rimaste».

Poi la rinascita nella marina, a due passi dalla foce della fiumara Laverde, quella stessa fiumara che a monte, dove assume altre denominazioni, aveva contribuito a quel disastro. «Nel nuovo paese io sono venuta tra i primi; hanno fatto in due anni settanta alloggi gli svedesi, dei prefabbricati, ed altri 70-80 case popolari, quelle vicino alla chiesa; li fecero presto, hanno messo subito la luce e l’acqua. Vi hanno portato 150-160 famiglie. Era nel 1953; a giugno del 1953 sono venuta qua».

Le altre abitazioni furono pronte ed assegnate alla gente di Africo più tardi, nei primi anni Sessanta, quando iniziò per loro una nuova vita. Nel salutare la signora Maria, le abbiamo chiesto se fosse andata qualche volta a rivedere il luogo della sua casa di famiglia: «Io là non ci sono più tornata, mi hanno detto che della casa è rimasto qualche pezzo di muro. Del mulino niente».

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