Domenico Zappia
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«Mio figlio era uno studente modello e la mia è sempre stata una famiglia rispettabilissima».
È un grido di dolore soffocato da troppo tempo quello di Concetta Micera, la madre ormai ottantottenne di Domenico Zappia, Mimmo per tutti, 18 anni appena compiuti quando fu ucciso nei pressi della frazione Galati di Brancaleone, in provincia di Reggio Calabria.
Era il 2 ottobre del 1987 e quel giorno c’era lo sciopero dei treni. Mimmo, che abitava con la sua famiglia a Staiti e frequentava l’Istituto tecnico commerciale per geometri a Bova Marina, all’uscita di scuola decise di raggiungere la statale 106 per chiedere un passaggio a qualche compaesano che tornava verso casa.
E qualcuno, infatti, lo vide sulla strada e si fermò per farlo salire in macchina. Mimmo non poteva neanche lontanamente immaginarlo, ma nello stesso istante in cui accettò quel passaggio, diventò il bersaglio inconsapevole di un agguato di ‘ndrangheta.
L’obiettivo dei killer era Antonio Stelitano
Ad attendere Antonio Stelitano, infatti, l’uomo che si era offerto di portarlo a Staiti, c’erano due killer armati di lupara che appena videro spuntare la sua auto, cominciarono a sparare all’impazzata.
L’uomo morì sul colpo mentre Mimmo, ferito gravemente, si spegnerà dopo cinque giorni di agonia in ospedale a Reggio Calabria.
Sono passati trentaquattro anni da questo tragico episodio e Mimmo, vittima innocente di ‘ndrangheta, è stato completamente dimenticato.
Eppure lo conoscevano tutti a Staiti, era l’unico figlio di Gaetano Zappia, stimato applicato di segreteria al Comune, e della signora Concetta Micera, ex crocerossina della provincia di Avellino e presidente dell’Azione Cattolica, sempre molto attiva nella comunità staitese.
Mimmo, qualche mese prima della sua morte, era stato già duramente colpito dalla scomparsa di suo padre. Gaetano, infatti, a soli cinquant’anni fu stroncato da un infarto e sua moglie e suo figlio si ritrovarono improvvisamente da soli.
Per Concetta quel figlio non ancora adulto, ma già saggio e instancabile lavoratore, rappresentava il suo unico punto di riferimento. Tutto, ormai, ruotava attorno a quel ragazzo studioso, intelligente e sensibile, che riusciva a lenire ferite e alimentare speranze. Con lui sentiva ancora di avere una famiglia e seppur privata del suo compagno di vita, le rimanevano degli obiettivi importanti da raggiungere: aiutare Mimmo a realizzarsi negli studi e stargli più vicino che poteva per non fargli sentire la mancanza del padre al quale era molto legato.
La madre Concetta si batte ancora perché suo figlio venga riconosciuto come vittima innocente di ’ndrangheta
Concetta è sempre stata una donna accogliente, generosa, allegra. Cercava in tutti i modi di creare legami autentici all’interno della comunità che l’aveva accolta.
Il suo impegno cristiano poi, la portava spesso ad occuparsi di disagio ed emarginazione. E i valori in cui lei credeva, li aveva trasmessi anche a suo figlio.
“Mimmo era di animo buono – ricorda Concetta -. Amava molto la natura e gli piaceva andare a lavorare nella nostra vigna. Spesse volte prendeva la motozappa e si metteva al lavoro con grande passione. Anche la musica lo attraeva molto, insieme ad altri amici faceva parte della banda di Staiti, suonava il clarinetto ed era molto bravo”.
LA VICENDA
Domenico Zappia fu ucciso il 2 ottobre 1987
Stelitano morì sul colpo, il giovane innocente 5 giorni dopo
Lo studente Domenico Zappia, 18 anni, di Staiti in provincia di Reggio Calabria, fu ucciso il 2 ottobre del 1987. Non era lui l’obiettivo dei killer bensì Antonio Stelitano, di 33 anni, al quale il ragazzo casualmente aveva chiesto un passaggio per tornare a casa dopo la scuola. I due, a bordo di una Fiat 127, furono raggiunti da numerosi colpi di lupara, Stelitano morì sul colpo mentre Mimmo Zappia si spense dopo 5 giorni di agonia in ospedale.
Questo duplice omicidio venne inserito nella faida di Motticella che in 7 anni anni, dal 1983 al 1990, lasciò sul campo oltre 50 vittime tra cui gli studenti Pietro e Filomena Pezzimenti.
Uno strappo non ricucibile in alcun modo quella morte assurda e inspiegabile, una sofferenza che emerge prepotentemente e vanifica anche i ricordi lievi, felici.
“Sin da piccolo il mio Mimmo dimostrò le sue reali potenzialità – continua -. Era il migliore della scuola, prendeva dieci in tutte le materie, aveva una grande intelligenza. Vinse anche delle pagelle d’oro. Era un figlio di cui andare orgogliosi: educato, sempre disponibile con tutti ed era molto attento sia nei miei che nei confronti del padre, con il quale condivideva anche la passione per la caccia. Mio marito faceva parte dell’associazione cacciatori e rilasciava anche le tessere. Anche Mimmo, appena possibile, avrebbe voluto averla. Si era anche iscritto alla scuolaguida per prendere la patente. Aveva tanti progetti quel figlio mio, ma quel giorno dello sciopero dei treni chiese il passaggio alla persona sbagliata”.
“Morto a diciotto anni per un passaggio”, lo ripete quasi come una cantilena Concetta.
Nonostante il tempo trascorso, sono ancora vivi in lei stupore e smarrimento. Il dolore sopraggiunge quando, guardandosi intorno non vede più figure amate, familiari.
“Sono stata una donna molto vivace e attiva nella mia vita – spiega – ma ora non posso più lavorare. Mi sono rotta il femore e cammino con il girello. Sono caduta. Cado sempre. Sono rovinata. Dopo la morte di mio marito e di mio figlio sono rimasta sola. Ci sono dei nipoti che si prendono amorevolmente cura di me, ma la mia famiglia, quella non ce l’ho più. Mio marito morì tre mesi prima di Mimmo a causa di un infarto. Lavorava al Comune di Staiti, faceva il vicesegretario, era molto stimato. La mia è sempre stata un’ottima famiglia, non siamo mai stati mafiosi”.
Ritorna lo smarrimento in Concetta, lo stesso che accompagna molti familiari di vittime innocenti di ‘ndrangheta, costretti a leggere negli occhi degli altri, dubbi e incertezze.
È un percorso comune il loro, che aggiunge dolore a dolore e che genera profonde solitudini. Eppure Concetta è rimasta ugualmente a Stati, accanto a suo figlio e a quel marito che molti anni prima, dopo averla sposata, la portò in questo incantevole borgo della Calabria.
“Io sono originaria di Avellino – spiega -. Gaetano l’ho conosciuto a Roma mentre frequentavo il corso di crocerossina. Me lo presentarono delle amiche comuni e tra di noi scattò subito qualcosa. Era una persona gentile, ben educata. Dopo il matrimonio mi trasferii a Staiti, qui mi sono subito trovata bene perché mio marito è sempre stata una persona molto rispettata. Ma dopo la sua morte mi hanno ammazzato il figlio. Aveva appena compiuto 18 anni e mi chiese di non dirlo a nessuno perché era appena morto il suo papà ed era giusto fare così, eravamo in lutto. La mia è una storia triste. Mimmo era figlio unico. Avevo avuto prima di lui un’altra bambina che morì durante il parto. Solo questo figlio ci aveva dato il Signore. Poi sono rimasta sola, desolata”.
Si fa fatica a comprendere come la società civile, le realtà associazionistiche e le istituzioni del territorio abbiano potuto dimenticare, in tutti questi anni, il giovane studente di Staiti ucciso per aver chiesto un passaggio all’uscita di scuola. Solo da poco tempo il nome di Mimmo Zappia è ricomparso timidamente in occasione della Giornata nazionale contro le mafie e il suo ricordo affidato a poche voci libere.
Concetta Micera, da sola, in trentaquattro anni ha dovuto fare i conti con il suo dolore e il silenzio sulla fine del suo ragazzo. Oggi, seppur stanca e malata, trova ancora la forza di chiedere che suo figlio venga ufficialmente annoverato tra le vittime innocenti di ‘ndrangheta.,
Il manifesto della scuola
La scuola di Bova Marina frequentata dal ragazzo, l’Istituto tecnico commerciale per geometri, all’indomani della sua scomparsa fece affiggere un manifesto mortuario coraggioso, nel quale, senza mezzi termini, prendeva posizione contro quell’ingiusta morte:
“Domenico Zappia, ottimo studente, giovane dotato di alte virtù morali e civiche, è stato barbaramente falciato da ciechi e spietati assassini a soli 18 anni.
Il preside, i professori e i compagni addolorati lo piangono”.
“La mia vita è stata una vera tragedia – continua l’ex crocerossina – ma ho tante persone che oggi mi vengono ad aiutare. Il Signore deve starmi accanto. Io sono stata presidente dell’Azione Cattolica, ho fatto sempre buone azioni. Nei momenti più difficili mi sono rivolta anche alla protettrice del mio paese. Mio figlio mi è stato strappato e ho superato anche questo ma la piaga nel cuore è sempre rimasta aperta. Dopo tanti anni ancora mio figlio non è iscritto nell’elenco delle vittime innocenti di ‘ndrangheta. Era un delinquente mio figlio? No, Mimmo non era un delinquente. Il dolore in tutti questi anni mi ha consumata, ma finché avrò forza chiederò verità per mio figlio e il riconoscimento che merita nel mondo dei giusti”.
Il tempo non ha lenito né il dolore della perdita, né la sete di giustizia che anima Concetta. Ha continuato a vivere trovando conforto solo nella fede e nel suo impegno sociale ma non ha mai dimenticato un solo particolare del giorno in cui Mimmo è stato ucciso.
“Io ero a casa quel giorno – ricorda – e stavo aspettando che Mimmo tornasse da scuola. Poi squillò il telefono, era mia cognata. Mi disse che Mimmo aveva fatto un incidente e che era stato portato in ospedale, lei lo aveva saputo da alcune persone di Bova Marina. Subito dopo venne a prendermi mio cognato, il fratello di mio marito, per portarmi da Mimmo. Cinque giorni lottò tra la vita e la morte e alla fine quest’ultima ebbe il sopravvento. In quei giorni mi ospitarono i miei cognati e non fu facile accettare di non avere più mio figlio. Per il funerale arrivarono a Staiti anche i miei fratelli, il maggiore dell’esercito che stava ad Avellino e il primario ortopedico che lavorava a Milano. La morte di Mimmo fu una tragedia anche per loro. Io, seppur ormai sola, decisi di rimanere in Calabria perché mio figlio è stato seppellito qui e io con i soldi della pensione di mio marito, gli ho fatto fare una tomba nuova, bellissima. Mio figlio è seppellito qui e anch’io voglio morire qui, accanto a lui”.
LA FAIDA DI MOTTICELLA
All’origine il sequestro di una farmacista nel gennaio del 1983
All’origine della guerra tra clan, il rapimento della farmacista Concetta Infantino avvenuto il 25 gennaio del 1983 a Brancaleone ma anche problemi legati alla sfera sentimentale tra alcuni componenti dei clan.
Negli anni ’70 ad Africo c’era una sola grande organizzazione composta da 4 famiglie: gli Scriva, i Mollica, i Palamara e i Morabito.
Gli Scriva e i Mollica esercitavano la loro influenza anche sui comuni di Bruzzano, Brancaleone, Motticella e Ferruzzano.
Il rapimento della donna, rilasciata venti giorni dopo, venne eseguito da alcuni componenti della famiglia Palamara, detti ramati, che erano legati agli Scriva. L’ostaggio fu tenuto in un terreno di proprietà dei Mollica a Motticella.
Uno dei due clan si sarebbe intascato duecento milioni di lire senza riferire niente all’altro ed inoltre il rifugio in cui fu nascosta era sito in un terreno di una cosca che non fu pagata per aver dato la disponibilità del luogo.
La faida si concluse solo grazie all’intervento di Giuseppe Morabito e Antonio Pelle ma nel 2005 si riaccesero altri focolai.
L’operazione Tuareg ha consentito ad investigatori e inquirenti sia di ricostruire le dinamiche di quella guerra di ‘ndrangheta che individuare i protagonisti coinvolti in quel bagno di sangue.
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