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Il putto con la banana fatto cancellare dall'amministrazione comunale

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POLISTENA (REGGIO CALABRIA) – «Possono cancellare quanto e quello che vogliono. Io ho sempre espresso il mio modo di comunicare così. L’ho sempre fatto, lo faccio e continuerò a farlo».

Le polemiche nate nei giorni scorsi a Polistena intorno alla (s)comparsa di alcune opere di street art sui muri della città non sembrano scalfire più di tanto colui che quei disegni li ha eseguiti materialmente.

Tutto è partito quando “583P”, questo la sigla con cui l’artista firma i suoi stencil murari, nei giorni scorsi ha realizzato alcune opere in una zona centrale di Polistena. A far discutere è stata la decisione del Comune di cancellare un putto rinascimentale con una banana piazzata ad altezza del pene, perché ritenuto troppo volgare dagli amministratori della città. Ne è seguito un ampio dibattito tra chi non ha condiviso la scelta del Comune e chi invece ha appoggiato la scelta dell’amministrazione comunale guidata dal sindaco Michele Tripodi.

Una polemica tutta incentrata su un argomento difficile e spinoso quale la linea di confine tra libertà di espressione artistica e “buongusto” dell’opera d’arte. Dopo la cancellazione del putto il writer, quasi a mò di sberleffo per la cancellazione della precedente opera, ne ha realizzata un’altra nello stesso punto, questa volta raffigurante una Gioconda accompagnata da una scritta tratta da un famoso film di Roberto Benigni. Come avvenuto per il putto, anche la Monna Lisa è stata cancellata con una mano di vernice dopo essere stata immortalata da curiosi e passanti che hanno riversato sui social l’immagine dell’opera.

Come già detto, “583P” sembra essere deciso ad andare avanti nel voler esprimere la sua arte. Il putto sui muri della città ha fatto molto discutere.

Quale messaggio portava con sé?  

«Il putto l’ho realizzato come omaggio alla copertina del disco dei Velvet Underground ispirata da Andy Wharol. Il mio putto non urina in pubblico, prende confidenza con una banana omaggio, come dicevo, di uno dei gruppi storici degli anni ’70. Il messaggio che vorrei comunicare è racchiuso nella figura che viene poi riprodotta sul muro, una figura conosciuta, già vista ma che io modifico per renderla comunicativa di ciò che vorrei arrivasse a chi la guarda. Io la vedo come una situazione molto bella, autentica, un po’ pericolosa ma vera. C’è un mondo dietro ai graffiti che solo chi non c’è dentro non sa».

Come vivi questa polemica da parte delle Istituzioni nei riguardi di ciò che fai?

«Ho cominciato ad approcciarmi a questa forma comunicativa nel lontano 1998. Possono cancellare quanto e quello che vogliono. Io ho sempre espresso il mio modo di comunicare così. L’ho sempre fatto, lo faccio e continuerò a farlo. La mia è una forma di espressione. Possono definirmi come vogliono non è una cosa che onestamente mi interessa. Per me non è un messaggio di provocazione ma di apertura, di spinta a comunicare quello che si è, quello che si pensa in un luogo nel quale può essere letto da più persone. Non bisognerebbe reagire con una chiusura, secondo me, ma con una riflessone improntata al dialogo, alla comprensione di quanto viene detto o non detto mediante un disegno».

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