Antonio De Pace e Lorena Quaranta
2 minuti per la letturaLa corte d’assise di Reggio Calabria ha condannato all’ergastolo Antonio De Pace ritenuto colpevole del femminicidio di Lorena Quaranta
REGGIO CALABRIA – La Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria (presidente Angelina Bandiera, a latere il giudice Caterina Asciutto) ha condannato all’ergastolo Antonio De Pace. L’infermiere originario del Vibonese il 21 marzo 2020 a Furci Siculo, in provincia di Messina, ha ucciso la fidanzata, Lorena Quaranta, laureanda in Medicina.
La Corte di Cassazione aveva annullato con rinvio la sentenza di condanna anche in quel caso all’ergastolo emessa dai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Messina nei confronti di De Pace, limitatamente al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, in parziale accoglimento della richiesta dai difensori dell’imputato, gli avvocati Salvatore Staiano e Bruno Ganino. Con questa decisione i giudici di Cassazione hanno disposto, quindi, un nuovo giudizio presso la Corte d’Assise d’Appello questa volta di Reggio Calabria.
FEMMINICIDIO QUARANTA, ERGASTOLO PER DE PACE
La Procura generale, rappresentata dal procuratore generale Domenico Galletta, condividendo l’impostazione data dalla Corte di Cassazione, nel corso della propria requisitoria, aveva riformulato la richiesta di condanna in 24 anni di carcere per l’imputato. La richiesta teneva conto del riconoscimento delle attenuanti generiche ritenendole equivalenti alla circostanza aggravante dal fatto che Antonio De Pace abbia ucciso una persona a lui legata da una stabile relazione affettiva e con lui convivente. Il rinvio disposto dalla Suprema Corte, tuttavia, non riguardava la penale responsabilità dell’imputato, dichiarata ‘irrevocabile’ dalla Cassazione. In altre parole, a parere degli ermellini, i giudici di secondo grado nell’emettere la sentenza di condanna non avrebbero tenuto conto che l’omicida sarebbe stato “stressato” a causa del Covid.
«Deve stimarsi che i giudici di merito – si legge infatti nella sentenza di Cassazione – non abbiano compiutamente verificato se, data la specificità del contesto, possa, ed in quale misura, ascriversi all’imputato di non avere ‘efficacemente tentato di contrastare’ lo stato di angoscia del quale era preda». Ma anche se la fonte del disagio fosse «evidentemente rappresentata dal sopraggiungere dell’emergenza pandemica, con tutto ciò che essa ha determinato sulla vita di ciascuno e, quindi, anche dei protagonisti della vicenda». La parte civile era rappresentata dall’avvocato Giuseppe Barba.
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