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L'ex presidente del consiglio regionale Domenico Tallini

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Depositate le motivazioni della Corte d’Appello di Catanzaro sull’assoluzione dell’ex presidente del consiglio regionale Domenico Tallini

CATANZARO – Affermazioni come «Noi abbiamo Tallini», «nonostante a primo acchito abbiano un’indiscutibile valenza indiziaria», non superano «la prova decisiva dei fatti» e si rivelano prive di «concretezza e significatività». Questo uno dei passaggi più rilevanti delle motivazioni, appena depositate, della sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro nel processo cosiddetto Farmabusiness nel quale era coinvolto Domenico Tallini. A fronte di una richiesta di 7 anni e 8 mesi di reclusione, che era stata avanzata dal sostituto procuratore generale Domenico Guarascio (LEGGI), l’ex presidente del consiglio regionale ed ex assessore regionale Mimmo Tallini era stato assolto, anche in Appello, come si ricorderà, dall’accusa di voto di scambio e concorso esterno in associazione mafiosa per la presunta – ora più che mai – contiguità con la potente cosca Grande Aracri di Cutro.

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Anche in Appello regge, comunque, la tesi accusatoria del progetto imprenditoriale del clan. Ma, a parte «l’evidente interesse» che Tallini ha nutrito nella «fase iniziale» dell’operazione, «nessuno dei dirigenti e funzionari il cui nome è evocato nelle conversazioni captate risulta essere mai stato avvicinato, indotto, persuaso, costretto» dal politico catanzarese ad «assumere determinazioni che non avrebbe altrimenti adottato o a forzare i normali tempi di rilascio della richiesta autorizzazione imprimendo all’iter un anomalo o accelerato decorso».

Tallini, insomma, si legge ancora nelle motivazioni, non ha «strumentalizzato il suo ufficio e le sue funzioni». La pena più elevata resta quella per Domenico Scozzafava, l’antennista di Sellia Marina portatore di voti di Tallini e presunta figura cerniera tra ‘ndrangheta e politica, ma anche per lui c’è stata una riduzione: da 16 anni a 11 anni e 8 mesi. Viene ritenuto «l’artefice del piano delittuoso che ha trasformato l’affare FarmaItalia in attività d’impresa gestita, sotto mentite spoglie, dalla cosca Grande Aracri». L’inchiesta, condotta dal pm Guarascio, che ha sostenuto l’accusa in primo grado ed è stato applicato anche in Appello, avrebbe delineato i nuovi assetti del clan i cui vertici erano stati decapitati dopo l’operazione Kyterion del gennaio 2015. Tra le condanne confermate spicca quella a 2 anni e 8 mesi di reclusione per l’avvocato Domenico Grande Aracri, fratello del boss ergastolano Nicolino.

La Corte definisce «granitico» il quadro accusatorio a carico del presunto colletto bianco del clan, per il suo ruolo di «garante» dell’operazione. Quando il commercialista Leonardo Villirillo (condannato, oltre che in questo processo, anche nel processo Grimilde, contro l’articolazione emiliana del clan), parla di «una cosa più pulita possibile», secondo i giudici si riferisce all’avvocato nella veste di «professionista insospettabile», per le sue «competenze legali e la qualificata rete di relazioni che sicuramente gli avrebbero consentito di individuare con facilità farmacisti da consorziare e medici collusi da coinvolgere». Un piano che ha ricevuto «l’avallo personale» di Giuseppina Mauro, moglie del boss, per la quale la pena era scesa da 14 anni a 13 anni e 8 mesi.

Tra le condanne rideterminate balza all’attenzione quella per il nipote del capo cosca, Salvatore Grande Aracri, ritenuto l’ideatore dell’affare, per il quale la pena di 11 anni e 4 mesi scende a 11 anni. L’imputato, secondo i giudici, «ha promosso, sposato e fatto proprio il progetto del consorzio FarmaItalia con l’unico, confessato obiettivo di farlo diventare un affare di famiglia». Ciò nella consapevolezza, anche questa dichiarata nelle conversazioni intercettate (decisive quelle captate nella famigerata tavernetta di contrada Scarazze), che «Nicola Grande Aracri, la cui scarcerazione allora era ritenuta imminente una volta rimesso in libertà, avrebbe chiesto il conto e accentrato nelle sue mani la gestione».

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