X
<
>

Il Palazzo di giustizia di Milano

Share
4 minuti per la lettura

Dopo 34 anni la condanna per i due pentiti che avrebbero fornito armi e mezzi per l’omicidio Mormile; il fratello della vittima: “Prima sentenza che riconosce le vere ragioni dell’uccisione”


MILANO – Fu il primo delitto rivendicato dalla misteriosa sigla “Falange Armata”, utilizzata dalle mafie nell’ambito della strategia stragista ma riconducibile a una componente deviata dei Servizi segreti e a un progetto eversivo. Dopo le condanne in via definitiva dei boss della ‘ndrangheta Domenico e Antonio Papalia come mandanti e di Antonio Schettini e Nino Cuzzola quali esecutori materiali, gli ultimi due rei confessi, un altro importante tassello si aggiunge. Ieri, infatti, la gup di Milano Marta Pollicino, ha emesso la sentenza che ha inflitto sette anni ciascuno ai collaboratori di giustizia calabresi Salvatore Pace e Vittorio Foschini perché ritenuti colpevoli per il concorso nell’omicidio di Umberto Mormile, l’educatore del carcere di Opera ucciso a 34 anni in un agguato di ‘ndrangheta compiuto l’11 aprile del 1990 a Carpiano, nel Milanese. La gup ha riconosciuto a Pace e Foschini le attenuanti generiche, equivalenti all’aggravante, e l’attenuante speciale per la collaborazione.

I DUE PENTITI AVREBBERO FORNITO LE ARMI E I MEZZI PER L’OMICIDIO

Secondo l’accusa, rappresentata in aula dal pm della Dda milanese Stefano Ammendola, che chiedeva otto anni a testa per gli imputati, Foschini e Pace si sarebbero messi a disposizione dei mandanti dell’omicidio fornendo armi e mezzi ad Antonio Schettini, che dal sellino di una moto guidata da Nino Cuzzola sparò e colpì per sei volte Mormile.
L’impianto accusatorio recepisce l’ipotesi sostenuta dalla Dda ma anche dall’avvocato Fabio Repici, che rappresenta i fratelli della vittima, Nunzia e Stefano, e la figlia Daniela, costituiti parte civile. Una tesi che vede al centro Pace come capo del gruppo criminale che si sarebbe messo a disposizione dei boss Franco Coco Trovato e Domenico Papalia, i capi della ‘ndrangheta lombarda, fornendo supporto logistico nella fase preparatoria dell’omicidio. Pace, in particolare, avrebbe fatto consegnare da esponenti del suo gruppo armi e una moto per eseguire il delitto. Il ruolo di Foschini, ex braccio destro di Coco Trovato, sarebbe stato, invece, quello di avere dato disposizioni ai sodali perché fornissero l’auto e una moto ai killer. Ai familiari della vittima la giudice ha riconosciuto una provvisionale di risarcimento di 100 mila euro ciascuno. Le motivazioni saranno depositate entro 90 giorni.

L’OMICIDIO DI MORMILE E LA RIVENDICAZIONE DELLA FALANGE ARMATA

Mormile venne assassinato sulla strada provinciale Binasco-Melegnano mentre si recava al lavoro. Da una moto Honda “600” che affiancò la sua auto Alfa Romeo “33” i sicari spararono sei colpi con una calibro 38 special. L’omicidio venne rivendicato all’Ansa di Bologna dalla Falange Armata, sigla che fu utilizzata anche per depistare le indagini sugli attentati ai carabinieri in Calabria nell’ambito di una strategia volta ad impedire che fossero immediatamente ricondotti alle mafie.
Un filone d’indagine si intreccia con l’inchiesta della Dda di Reggio Calabria sulla ‘ndrangheta stragista. Nelle sentenze che condannano Antonio e Domenico Papalia e Franco Coco Trovato quali mandanti e Antonio Schettini e Antonino Cuzzola quali esecutori, i giudici ritengono del tutto false le rivendicazioni partendo dal presupposto che il delitto era maturato in un contesto di ‘ndrangheta.

LE DICHIARAZIONI DEL PENTITO FOSCHINI

Agli atti dell’inchiesta c’è un interrogatorio del pentito crotonese Vittorio Foschini. «Mormile, nonostante sia stato infangato come corrotto, venne ucciso perché rifiutò di fare una relazione compiacente a Domenico Papalia. Anzi nel rifiutare ad Antonio Papalia il favore per Domenico Papalia (che se non sbaglio era detenuto per l’omicidio D’Agostino delitto nel quale secondo quanto appresi da Antonio Papalia erano coinvolti anche i servizi segreti), ancorchè ricompensato, disse ad alta voce, ad Antonio Papalia che che lui “non era dei servizi”, alludendo ai rapporti fra Domenico Papalia e i servizi che pure erano veri ed esistenti. Infatti nel carcere di Parma, in precedenza, il Papalia Domenico aveva rapporti e colloqui con i servizi. Ciò mi venne detto da Antonio Papalia che pure aveva rapporti con i servizi come pure lui stesso mi confidò. Proprio questo rifiuto con l’allusione ai servizi fu fatale per il Mormile.
Insomma, questa allusione sui rapporti Servizi-Papalia, oltre che al rifiuto di fare il favore, fu fatale al Mormile».

DOPO LA SENTENZA SULL’OMICIDIO MORMILE, LE DICHIARAZIONI DEL FRATELLO DELLA VITTIMA

Il “consorzio mafioso lombardo”, una cupola basata su un sistema confederativo tra ‘ndrangheta, cosa nostra e camorra, al centro di una recente inchiesta della Dda di Milano, avrebbe deciso, secondo i pentiti, anche il delitto Mormile oltre che quello del figlio del boss Raffaele Cutolo.
«È la prima sentenza che riconosce a distanza di 34 anni le vere ragioni dell’omicidio di nostro fratello – dice Stefano Mormile al Quotidiano – E’ una gran bella soddisfazione, anche se l’esito appariva scontato trattandosi di rei confessi e dopo le condanne definitive dei mandanti, ma bisognerà aspettare le motivazioni per capire se la sentenza costituisce un viatico per arrivare ai responsabili istituzionali. Quest’ultimo aspetto è quello che ci sta più cuore e darebbe un senso alla morte non solo di Umberto ma di altra tanta gente».
In una memoria depositata in udienza l’avvocato Repici parlava di “vulnus” arrecato non solo ai suoi assistiti «ma anche all’intera Nazione».

Share

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

Share
Share
EDICOLA DIGITALE