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LOCRI (REGGIO CALABRIA) – Ergastolo per gli amanti diabolici. Con isolamento diurno della durata di tre mesi per Susanna Brescia. Fine pena mai anche per il suo amante Giuseppe Menniti. Ventitré anni di reclusione per il figlio maggiore della donna, Francesco Sfara mentre l’altro figlio della Brescia, Giuseppe Sfara è stato assolto per non aver commesso il fatto. Sono stati loro a tramortire e bruciare quando ancora era vivo Vincenzo Cordì, il cameriere di Marina di Gioiosa trovato carbonizzato il 13 novembre del 2019, all’interno della sua Fiat 16 sui monti di San Giovanni di Gerace, nel Reggino.
È quanto deciso ieri dalla Corte d’Assise del tribunale di Locri dopo oltre 24 ore di camera di consiglio. Vincenzo e Susanna convivevano e dalla loro relazione erano nati due bambini; i gemellini che Vincenzo amava più di sé stesso al punto da morire. Susanna da qualche tempo aveva intrapreso una relazione anche con Giuseppe Menniti, e covava odio e gelosia per quel suo compagno che le aveva confidato di non fidarsi più di lei. Vincenzo aveva intenzione di interrompere la relazione e portare con sé i gemelli, aveva infatti capito che era stata proprio la sua Susanna a tentare di avvelenarlo con la somministrazione di barbiturici nell’aprile del 2016 e pare avesse scoperto anche che la donna lo tradiva «tu hai più di uno» e «ho sopportato fino a ora solo per i piccoli», le aveva scritto su whatsapp qualche tempo prima dell’omicidio. Sarebbe questo, secondo l’accusa il movente dell’orribile delitto. E la tesi dell’accusa è stata sposata in pieno dalla Corte presieduta da Amelia Monteleone con a latere il giudice Mariagrazia Galati e sei giudici popolari, ed anzi, per Menniti la condanna è stata superiore ai 30 anni formulati dall’ufficio di Procura, stessi anni di carcere erano stati chiesti per Francesco Sfara (difeso dall’avvocato Francesco Macrì) che in sede di sentenza se li è visti ridurre.
In aula, ieri, Susanna Brescia si è presentata con un tailleur nero e i capelli raccolti in una coda bassa, la 44 enne alla parola «ergastolo» ha abbassato lo sguardo per un attimo per poi tornare a guardare in avanti. Menniti, in t-shirt bianca e jeans, è invece apparso il più provato dei tre. Nel giorno della loro sentenza nessuno dei loro familiari era presente in aula, vicini avevano solo i loro avvocati: Menotti Ferrari (per Brescia), Antonio Ricupero e Girolamo Curti (per Menniti), Francesco Macrì (per Sfara). Una sentenza quella emessa alle 14.31 del torrido pomeriggio di ieri che è solo una carezza di giustizia nei cuori distrutti di Teresa e Rosamaria, madre e sorella del povero Vincenzo Cordì.
Le due donne sostenute dall’avvocato Rocco Guttà, con le magliette con sopra stampato il viso sorridente di Vincenzo, non hanno mai mancato ad una udienza di questo lungo cammino verso la giustizia, al termine della lettura del dispositivo le due si sono strette in un lungo abbraccio. «Ergastolo», ha ripetuto in lacrime Rosamaria che con le sue intuizioni e sospetti è stata fondamentale per il lavoro degli investigatori, conducendoli verso quella cognata, Susanna Brescia, che di continuo offendeva e trattava male suo fratello. Un lungo e commovente abbraccio nel corridoio del tribunale c’è stato, al termine della sentenza, anche tra le due donne e il sostituto procuratore, Marzia Currao, la giovane magistrato che ha condotto con cuore e determinazione le indagini del suo primo importante caso di omicidio.
Gli abbracci di ieri, quelli dei parenti tutti e amici di Vincenzo alle sue due donne, hanno fatto da cornice all’orrore che Susanna Brescia, Giuseppe Menniti e Francesco Sfara hanno commesso nella tarda serata dell’11 novembre 2019. La sera in cui Susanna con una scusa portò Vincenzo in montagna. Le ultime immagini di Vincenzo, pochi minuti prima della morte, lo ritraggono sereno mentre acquistava uno snack alla cioccolata nel bar sulla strada che da Marina di Gioiosa Ionica lo ha condotto nella località montana “Scialata”, là dove in una piazzola vicino una fontana è stato ucciso. Una morte cruenta. Il gigante buono, come era definito da tutti per la sua statura e per la bontà d’animo, è stato tramortito, poi messo dentro l’auto in posizione supina, sdraiato sul lato guidatore, con la testa collocata tra il pomello del cambio ed il volante, là in quella posizione anomala per un suicidio, i tre lo hanno lasciato bruciare lentamente.
I medici legali, Pietro Tarzia e Antonio Introia, non hanno avuto dubbi: Vincenzo era ancora vivo quando il suo corpo è stato completamente avvolto dalle fiamme. Il giorno seguente la Brescia ha allertato i carabinieri anche se la denuncia di scomparsa è stata fatta dalla sorella dell’uomo. Quando poi i militari hanno rinvenuto il cadavere carbonizzato, la Brescia al fine di depistare le indagini, ha raccontato che Vincenzo parlava di suicidio.
«Non si può spiegare cosa provo, il mio cuore voleva questa sentenza e oggi finalmente – dice Rosamaria Cordì-. Ringrazio di cuore chi ha fatto le indagini, la dottoressa Currao che è una persona umanamente eccezionale, grazie al mio avvocato Guttà che mi ha sempre sostenuta». E, l’avvocato Guttà guardandola con dolcezza le ha ricordato «è solo il primo passo perché presumo, per esperienza, che ci sarà l’appello e dovremmo attendere ancora per avere la giustizia definitiva». La Corte ha disposto anche la trasmissione degli atti in Procura per Cosimo Brescia, fratello dell’imputata in merito ad alcune dichiarazioni.
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