Il pm Giuseppe Lombardo
2 minuti per la letturaREGGIO CALABRIA – «Cosa nostra voleva che la ‘ndrangheta calabrese attaccasse anche piccole caserme dei carabinieri e colpire i militari in servizio». E’ uno dei passaggi della lunga deposizione del collaboratore di giustizia della ‘ndrangheta cosentina Franco Pino, nel corso dell’udienza del processo denominato “‘Ndrangheta stragista”.
Nel processo sono imputati il boss della ‘ndrangheta Rocco Santo Filippone, fedelissimo dei Piromalli, e Giuseppe Graviano, esponente di Cosa nostra, accusati per gli agguati a pattuglie dei carabinieri compiuti in Calabria tra il ’93 ed il ’94, che provocarono la morte di due militari, e che, secondo l’accusa, facevano parte della strategia di attacco allo Stato voluta da Totò Riina con le stragi sul continente.
Pino, incalzato dal procuratore aggiunto della Dda reggina Giuseppe Lombardo, ha ricostruito alcuni episodi di sua conoscenza in cui vengono connotati i rapporti tra gli esponenti delle cosche reggine e cosentine, in un intreccio di affari e politica. Franco Pino ha detto di avere conosciuto gli ex parlamentari Amedeo Matacena, di Forza Italia, latitante a Dubai, e Paolo Romeo, del Psdi, attualmente detenuto, quest’ultimo presentatogli dall’ex consigliere regionale Giuseppe Tursi Prato, «per un appalto vinto dall’impresa Montesano di Reggio Calabria per la fornitura dei pasti all’ospedale di Cosenza».
Il collaboratore ha anche specificato le circostanze della presenza di Matacena a Cosenza, «amico di Nino Gangemi, esponente di spicco della cosca Piromalli, venuto per un appalto miliardario in Romania vinto dalla società Italstrade dietro cui c’era una dazione di danaro, una tangente da oltre un miliardo di vecchie lire, in cui era coinvolto un ingegnere cosentino», che secondo Pino doveva essere ucciso ma si salvò grazie al suo diniego.
«Gangemi, Carelli e altri erano già d’accordo per ucciderlo. Quando sono venuti e mi hanno portato un discorso già preparato ma alla fine si tirarono indietro». Franco Pino ha anche ricordato il summit al Villaggio Sayonara di Marina di Nicotera tra esponenti della ndrangheta e di Cosa nostra. «Dopo la strage di Borsellino e della sua scorta, alla fine dell’estate del 1992 – ha detto – fui convocato dal boss di Limbadi Pantaleone Mancuso. Con un mio uomo di fiducia, Umile Arturi, raggiunsi il campeggio. C’erano i Mancuso, Santo Carelli, Giuseppe Farao, Nino Pesce, Franco Coco Trovato, e c’era anche Giuseppe De Stefano. Ed un signore che mi fu presentato come Papalia. Luigi Mancuso ci comunicò l’interesse di Riina a coinvolgerci in una offensiva contro lo Stato ‘perché, diceva Riina, se la legislazione non cambia si fa brutto per tuttì. L’obiettivo erano le caserme dei carabinieri, sovvertire lo Stato e costringerlo ad una ‘trattativa’ per ammorbidire il ’41 bis’ e la legge sui collaboratori di giustizia. Io non ero d’accordo – ha detto Franco Pino – e neppure Luigi Mancuso, ricordo. Non condividevamo la guerra aperta allo Stato e ai carabinieri. A noi cosentini e cirotani – ha detto il pentito – ci volevano tirare dentro, ma non avevano certo bisogno di noi».
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