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L’architetto Alfonso Femia ideatore e direttore della Biennale dello Stretto

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«Il Mediterraneo guarda lontano noi racconteremo la sua forza»; è una Biennale, quella dello Stretto, che parla di luoghi. L’intervista all’ideatore e direttore Femia


«È una Biennale che non è codificata con il nome di una città ma di un territorio, quello dello Stretto, perché vogliamo uscire da un’identificazione specifica e parlare dei luoghi». Sono le parole con cui Alfonso Femia, architetto, ideatore e direttore della Biennale dello Stretto, descrive la mostra internazionale che intende esplorare questa relazione sistematica che esiste tra le due sponde. Una relazione che oltre ad essere concettuale diventa pratica anche grazie ad eventi come la Biennale, i quali preparano i cittadini a diventare parte di quell’Area dello Stretto in cui un numero crescente di persone riconosce una possibilità di rinascita e riscatto.

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«Lo Stretto è un territorio unico e straordinario – conferma Femia – e non vederlo come unità, contemplando anche le differenze che possiede, oggi suona quasi ingenuo. C’è un’intensità, una densità di qualità a tutti i livelli, industriali, agricoli, culturali, ambientali, formativi, che è un tesoro che aspetta solo di essere messo a valore e a disposizione come laboratorio. Non dobbiamo dimenticare che lo Stretto è un territorio che appartiene un po’ al mondo come i Dardanelli o Suez, possiede proprio quel tipo di valore». Un valore che supera quello dei singoli territori regionali e persino nazionali, infatti, immaginandosi come un capitolo culturale all’insegna della pluralità e della condivisione, la Biennale ha scelto di rapportarsi con il bacino del Mediterraneo ma anche con interlocutori ancora più lontani.

Eventi come questo crescono nel tempo, mentre la Biennale è diventata da subito un punto di riferimento. Ci racconta come è maturato questo progetto?

«La Biennale nasce dopo 5 anni di nostre ricerche sui territori del Mediterraneo, specificatamente dello Stretto, nel percorso lento della ricerca di “Mediterranei Invisibili”. Qui abbiamo capito che proprio lo Stretto poteva essere il focus dove sviluppare l’idea della centralità del Mediterraneo e i temi dell’acqua e delle città del futuro. Da lì abbiamo scelto di sviluppare la Biennale dello Stretto in un territorio particolare che unisce e separa due rive, quelle del Mediterraneo, due regioni e uno spazio territoriale molto ampio con precise peculiarità. Con l’esito della prima edizione la Biennale è diventata subito un punto di riferimento, questo è molto incoraggiante ma rappresenta anche una responsabilità per noi così come una chiamata alle Istituzioni (che un po’ latitano), perché l’obiettivo è che il territorio faccia propria questa Biennale e le dia continuità e crescita».

Cosa dobbiamo aspettarci da questa seconda edizione?

«Il riscontro della prima edizione è stato molto ampio, più di quello che potevamo immaginare perché siamo fuori dalle zone di comfort di questi eventi, non siamo né a Milano, né a Venezia né a Parigi, ma proprio questa è la sfida: cercare di far sì che questo luogo appartenga a quella mappa che identifica i luoghi in cui si producono cultura e progettualità. Con la seconda edizione intendiamo alzare ancora di più il livello: da un lato sul piano dell’arte grazie a un notevole salto qualitativo; dall’altro rendendo ancora più collettivo il progetto anche grazie alla ricchezza delle proposte, di valore nazionale e internazionale, che sono arrivate.
Abbiamo, infatti, contributi che vengono da Cina, Stati Uniti, dal Centro America, dalla Francia. Il nostro sforzo è quello di far comprendere come oggi serva progettare i temi attraverso le dimensioni dell’arte, della fotografia, del giornalismo, del cinema e di molte altre che si muovono intorno alla vita e contribuiscono allo sviluppo della società. Tutte queste dimensioni sono state portate a confrontarsi con i temi della Biennale».

Un aspetto di questa seconda Biennale è che, insieme al tema de “Le città del futuro”, ha riproposto quello de “Le 3 linee d’acqua”, già al centro della prima edizione.

«Tutti concordano sul fatto che il tema dell’acqua sia interessante, ma poi c’è difficoltà ad approfondirlo. Per noi è centrale perché l’acqua è la vera sentinella di molti cambiamenti. Abbiamo scelto di riproporre questo tema perché vogliamo uscire da questa bulimia che riguarda tutti gli eventi che bruciano un argomento e poi devono immaginare qualcos’altro. Invece i temi che hanno bisogno di essere capiti, sviluppati e indagati profondamente devono abbandonare quel consumismo delle idee tipico della nostra società. Sulle città del futuro, invece, ci stiamo già confrontando da alcuni anni e abbiamo scelto 5 parole che rappresentano questo tema: tempo, relazione, generosità, responsabilità ed equilibrio. Parole semplici che vogliono e devono comunicare con i cittadini e aprire alla comunità».

La Biennale dello Stretto è proiettata in luoghi lontani e guarda con occhio attento al Mediterraneo, in che modo questa apertura può cambiare il volto delle città del futuro?

«Un primo obiettivo è proprio quello di ridare centralità al Mediterraneo che invece negli ultimi anni è un po’ scomparso, appunto diventando invisibile. Ed è strano se pensiamo a questo luogo per massa critica, economica, sociale o demografica. Ma non siamo più in un mondo che si pesa con quei criteri, è un mondo, il nostro, in cui sono importanti i valori del Mediterraneo, con i suoi 2000 anni di stratificazioni, contraddizioni, fragilità e di contesti territoriali che cambiano a pochi chilometri di distanza. A livello planetario non esiste un luogo così capace di poter essere di riferimento e parte di un dialogo con altre realtà.
Tutto il mondo da San Francisco a Shangai ha bisogno del Mediterraneo e il guardare lontano è la forza che il Mediterraneo ha sempre avuto, poi non dimentichiamo che tutto ciò che si fa localmente diventa contesto per un dialogo internazionale. Questa Biennale è proprio questo: un laboratorio permanente costante ed attivo dove è possibile dialogare».

E il futuro della Biennale cosa riserva?

«Io vengo da una settimana di conferenze internazionali a San Francisco in cui ho parlato della Biennale e figure autorevoli sono convinte che la mostra si meriterebbe il gemellaggio con quella di Chicago, perché hanno in comune la novità di affrontare temi difficili come quello dell’acqua. È interessante che si riconosca che i temi sono quelli giusti e che ci vuole tempo per creare un processo culturale che diventi condiviso. Con la Biennale siamo su questa strada».

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