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L’intervista a Mariangela Cama, da quest’anno nel team dei direttori, e il suo orizzonte per la Biennale dello Stretto


«Non è un evento, è un progetto» dice Mariangela Cama, reggina, da quest’anno Direttrice della Biennale di Architettura dello Stretto insieme ad Alfonso Femia e Francesca Moraci. «Al centro dell’attenzione c’è il nostro territorio, che è ancora poco conosciuto».

Direttrice Cama, la Biennale di Architettura dello Stretto è un appuntamento esclusivo per professionisti e scienziati dell’estetica e del paesaggio?

«Al contrario, è un cantiere aperto. Per cui dico: venite, si parla di voi, del posto in cui vivete, delle scelte di rigenerazione del territorio. Come è Forte Siacci a Campo Calabro, sottratto all’oblìo e al degrado, restituito ai cittadini. Non diremo che tutto va bene, ma il nostro è un progetto contro l’individualismo. E anche ai politici sussurriamo: accorrete numerosi e attenti, perché le idee di trasformazione hanno bisogno dei tecnici e dei ricercatori».

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Che cos’è l’Urbanistica tattica?

«È la sperimentazione visibile: semplici ed economici interventi in trasparenza. Come proveremo a fare in un’area residuale di Villa San Giovanni vicino al mare, proprio in occasione della Biennale. L’idea è quella di individuare delle aree poco utilizzate e di metterle in sicurezza. Molto spesso basta usare delle semplici vernici, il gigantismo del Pnrr ci ha abituati male. Ci sono attività sul territorio che costano nulla e rendono molto. Ma ci vuole la disponibilità degli amministratori, il sì è arrivato dalla sindaca Giusy Caminiti. E l’intervento verrà fatto in diretta con la partecipazione degli abitanti di Cannitello».

C’è questo paradosso: il corso di laurea in Architettura di Reggio è stato sempre una Stella del Sud. Ma in certe aree della città non valgono le leggi dell’urbanistica e dell’architettura, e nemmeno quelle di gravità.

«Come se non si trasmettesse la sapienza dall’università – dove io stessa ho studiato – alla società civile. Prevalgono appunto le scelte private, individuali. Sia in termini di abusivismo che di prospettiva: più palazzi che piazze, più parcheggi che giardini. Vince la pratica sul singolo edificio, la ristrutturazione. E invece vanno recuperate zone che si sentono periferie ma non lo sono. O aree di nessuno, come era diventato il Tempietto a Reggio, oggi un playground H24. Ma l’elenco è lungo, le città hanno bisogno di una maggiore attenzione».

Sentite vicina la Mediterranea?

«Più oggi che nella prima edizione, allora cogliemmo una certa distrazione, oggi salutiamo la presenza del Rettore, che è entusiasta. Tocca dirlo: senza Architettura a Reggio non ci sarebbe la Biennale».

E gli altri due direttori?

«Una fortuna lavorare con loro, e dire che avevo quasi snobbato la proposta… Alfonso Femia è il visionario, l’ispiratore della Biennale, è un calabrese con accento genovese. Ha la prospettiva di chi arriva da fuori, di chi ha girato e lavorato per il mondo. Francesca Moraci, che insegna Urbanistica a Reggio, ha accompagnato la crescita della manifestazione, ha uno sguardo femminile che non guasta mai, e spesso l’ho trovata, da progettista, china sulle mappe del Comune».

Lei è stata due anni e mezzo assessora a Reggio: perché è andata via?

«Perché a un certo punto i tecnici perdono peso, vincono le logiche della politica. Di certo sono orgogliosa di aver firmato il Piano strutturale comunale degli ambiti territoriali. Dopo cinquant’anni. Palazzo San Giorgio ha finalmente strumenti contro l’abusivismo, la sfida è metterli in pratica. E poi i Pinqua, che sono bandi finanziati per interventi strutturali in quartieri trascurati della città come Arghillà, Modena e la zona-stadio, e i piani-spiaggia».

Come coniuga questo ottimismo, con i ritardi pluriennali dei cantieri? Certo alla mafia i lavori pubblici piacciono assai.

«Le sembrerà strano, ma oggi le procedure, le norme amministrative, le modifiche puntano alla semplificazione. Ma è impossibile stare dietro a tutto, gli uffici non sono pronti: la politica comincia a capirlo, la strada è ancora lunga».

I reggini passano davanti all’Orchidea – negli anni ’60 uno dei primi cinema con il bar, come accadeva solo a Parigi – e imprecano.

«Eppure è stato un progetto innovativo, in cui l’Ordine degli Architetti ha avuto un ruolo decisivo. Un concorso di idee, con la partecipazione di studi di livello internazionale, per un bene confiscato che era diventato un deposito. Ora il cantiere è sospeso, ma per una stupidaggine».

Direttrice Cama, alla Biennale dello Stretto interverranno anche architetti cinesi: si può globalizzare anche il disegno delle città?

«No, ma si possono apprendere buone idee. Io sono funzionaria alla Regione nel settore della rigenerazione urbana e dello sviluppo sostenibile, lo scambio di esperienze è decisivo. Alla Biennale si parlerà anche di ospedali più funzionali, ogni cittadino vive sulla sua pelle il valore di una buona Sanità».

Tutti i curatori hanno scelto una parola-chiave per spiegare la loro presenza. La sua?

«La mia è orizzonte, dove si toccano il cielo e la terra, e dove scompare il sole. È mutevole, aperto e va sempre avanti».

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