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SONO 11.729 i cani presenti nei canili e nei rifugi calabresi e un numero imprecisato di cani vaganti sul territorio. A questi si aggiungono i cani in stallo presso strutture private che non vengono, quindi, rilevati. E, invece, dai dati del ministero della Salute sarebbero solo 1096 i cani presenti nelle strutture riconosciute. Il dato farebbe pensare che la Regione Calabria, a partire dal 2018, non abbia fornito i dati aggiornati sul fenomeno del randagismo, così come appare evidente che le leggi esistenti, l’ultima in ordine di tempo, la 45 del 3 ottobre 2023 riguardante la promozione del benessere degli animali d’affezione e prevenzione del randagismo, siano state del tutto disattese, altrimenti non si parlerebbe, oggi, di “Emergenza Calabria”.
C’è un altro dato che deve farci riflettere: alla Regione Calabria, da anni, sono a disposizione dei Comuni 1.200.000 euro per la realizzazione di canili sanitari ma finora non è pervenuta nessuna richiesta di utilizzo dei fondi, privilegiando, quindi, le convenzioni con le strutture gestite da privati. La materia è molto complessa e non è difficile intuire, sin dalle prime battute, che il randagismo è un argomento spinoso e che sono in pochi a volerne parlare. Forse, perché si interviene solo sull’emergenza? Perché non esiste una programmazione, una cabina di regia tra Regione, Comuni e Aziende sanitarie? Perché i cani e i gatti, in fondo, con tutti i problemi che abbiamo, non sono una priorità e finiamo con l’occuparcene solo quando gli animali si rendono responsabili di aggressioni e finiscono con il riempire le pagine di cronaca? Proveremo comprendere, con l’aiuto degli attori principali, perché la Calabria insieme ad altre regioni del sud, è afflitta dal problema del randagismo.
Partiamo dalle leggi nazionali e regionali. Il 14 agosto del 1991, in Italia, con l’emanazione della “Legge quadro in materia di animali d’affezione e prevenzione del randagismo”, la 281, una specie di “Legge Basaglia” degli animali, cominciò una nuova era, perché per la prima volta gli animali da compagnia diventavano soggetti da tutelare, e ai proprietari e alle pubbliche istituzioni venivano riconosciute responsabilità e doveri precisi. La legge pose anche fine alla soppressione di cani e gatti vaganti come misura di contenimento del randagismo e alla loro cessione ad enti di ricerca. Alle Regioni venivano demandati i compiti di emanare leggi e regolamenti applicativi della legge nazionale, istituire l’anagrafe canina regionale, individuare i criteri per il risanamento dei canili comunali e la costruzione dei canili rifugio, ripartire i contributi statali e regionali tra gli enti locali, adottare un programma di prevenzione del randagismo in collaborazione con le associazioni animaliste e protezioniste, gestire gli albi regionali delle associazioni di volontariato presenti sul territorio e persino adottare regolamenti per i cimiteri di animali da compagnia dove previsto. I Comuni, invece, avrebbero dovuto vigilare sull’adempimento della normativa nazionale e regionale sul loro territorio di competenza applicando sanzioni a chi le avrebbe disattese, procedere alla cattura dei cani vaganti con metodi che ne salvaguardavano l’incolumità, riammettere sul territorio, dove era previsto, cani e gatti dopo la sterilizzazione, affidare i cani vaganti ai rifugi e attuare dei piani di controllo delle nascite attraverso le sterilizzazioni.
Anche i proprietari di animali d’affezione avrebbero dovuto iscrivere il proprio cane all’anagrafe canina, controllare le nascite e gestire correttamente il cane in base alle sue esigenze fisiche ed etologiche. Inoltre, già dal 1991, ben 32 anni fa, il ministero della Salute istituiva un fondo che metteva a disposizione delle Regioni per l’attuazione della legge. È interessante rilevare che questi fondi vengono ripartiti secondo alcuni criteri precisi: il 40% sulla base dell’attivazione della banca dati regionale dell’anagrafe canina in riferimento alla consultabilità telematica, il 30% in base alla consistenza della popolazione dei cani e dei gatti con riferimento al numero di ingressi nei canili e nei gattili e il rimanente 30% in base alla popolazione umana. Se non sono stati forniti per molti anni, sei per la precisione, i dati relativi agli ingressi nei canili e nei rifugi calabresi di cani e gatti – rimasti 1.096 contro gli attuali 11.729 – questa disattenzione ha determinato la perdita di fondi preziosi per la Calabria, che avrebbero potuto essere utilizzati per arginare il fenomeno del randagismo e consentire ai Comuni più volenterosi, sempre afflitti dalla mancanza di risorse, di mettere in atto strategie mirate per impedire che il numero dei cani vaganti aumentasse a dismisura con costi importanti per le casse comunali?
Proveremo a fare chiarezza sul punto. Nel 2022 i fondi messi a disposizione dal Ministero sono stati di 2 milioni di euro e avrebbero dovuto essere le Regioni, nell’ambito della loro programmazione, a elaborare il piano operativo di prevenzione del randagismo, dando priorità ai piani di controllo delle nascite e destinando una quota non inferiore al 60% alle sterilizzazioni e ad altre importanti iniziative. Le Regioni, poi, avrebbero dovuto inviare al Ministero una relazione annuale sull’attività svolta sul territorio, ma se i dati, come viene riscontrato sul sito del ministero della Salute, non rispecchiano la realtà esistente, che tipo di informazioni ha fornito la Regione Calabria in tutti questi anni?
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