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Enzo Ciconte

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COSENZA – Non sappiamo se Nicola Irto abbia fatto bene o meno a “congelare” la sua candidatura. Con ogni probabilità lo scopriremo venerdì, quando in Calabria arriverà Francesco Boccia, plenipotenziario di Enrico Letta.

Per il momento l’ex ministro tiene una linea equilibrista. «Il Pd costruirà un campo ampio che abbia come collante le forze sociali che hanno una stessa idea di società. Irto è una eccellente personalità, è stato chiaro, ripartiremo da una profonda valutazione politica con lui. Sono convinto che uniremo le forze civiche, progressiste e riformiste, come abbiamo fatto a Napoli, faremo un lavoro con Irto che sarà alla luce del sole. In questa settimana dobbiamo risolvere la questione, abbiamo il dovere di risolvere. Sono sicuro che lo faremo». Una dichiarazione che fa il paio con quella rilasciata dallo stesso Letta che da un lato ha confermato fiducia a Irto, ma dall’altro ha detto «giovedì troveremo una soluzione». Delle due, però, l’una. Perché questa dichiarazione fa trapelare che la soluzione potrebbe anche non essere Irto.

Ancora. Proprio ieri il Pd ha nominato il nuovo vice responsabile nazionale per l’organizzazione al Sud e nelle Isole. Si tratta del crotonese, di origini, Eugenio Marino che subito si è affrettato a rilasciare un’intervista a LaC. Sul “caso Irto”, Marino è stato chiaro: «Non considero definitivo il ritiro della candidatura, ma non può considerarsi neanche inamovibile se si deve discutere con gli alleati. Io ai tavoli di discussione non sono mai andato con out out, ma con la volontà di trovare una soluzione di sintesi». Tradotto Irto è in campo, lo stimiamo, però se si trova una candidatura di sintesi tutto può succedere. Proprio quello che ha portato Irto a dire basta. Ed infatti ieri sera nelle redazioni è arrivato lo spiffero che a Roma si starebbe discutendo fra Pd, M5s e LeU sull’ipotesi di candidare Enzo Ciconte, il saggista grande esperto di mafie, già deputato col Pci (1987) e primo dei non eletti alla Camera nel 1992 sempre con il Pds. Indiscrezioni ovviamente forse nemmeno tanto fondate. Ma che aprono un punto politico e uno di prospettiva.

Il vero punto politico si chiama autonomia. Della Calabria da Roma. Quello di prospettiva è la speranza che questa vicenda sia l’epilogo di questa “colonizzazione” subita. Un’azione che ha radici lontane nel tempo e che Agazio Loiero aveva intuito prima di tutti riuscendo a ribaltare questo clichè. Era il 2006, infatti, quando Loiero (che è uno dei fondatori del Partito Democratico) decise da presidente della giunta regionale di fondare un suo soggetto politico: il Partito Democratico Meridionale. Un tentativo più che riuscito, fin quando resse, al punto che il Pdm, candidato alle elezioni politiche, riuscì nel collegio della locride ad eleggere il senatore Pietro Fuda che poi si rivelò fondamentale per le sorti del Governo Prodi. Fu forse l’ultimo, o unico, scatto d’orgoglio della Calabria rispetto a Roma. Poi più nulla.

Intendiamoci il centralismo democratico 2.0 lo subiscono tutti i territori, ma in Calabria si presenta in maniera ancora più accentuata per la litigiosità della nostra classe dirigente e forse anche per la sua tendenza a ricorrere a protettorati romani.

D’altronde il partito è commissariato da oltre tre anni. Quello regionale dal 2019 per la precisione e poi a cascata vennero commissariate le federazioni di Cosenza e Crotone mentre quella di Reggio Calabria lo era già. Un’azione quindi di cancellazione dei gruppi dirigenti locali e l’azzeramento del dibattito interno.

Così un anno e mezzo fa Mario Oliverio si sgolava nel chiedere una discussione o quanto meno lo svolgimento delle primarie che oggi tanti sbandierano. Pezzi del partito partivano alla volta di Roma per chiedere ascolto, ma non accadde nulla. Zingaretti liquidò Oliverio con poche battute in televisione e decise di puntare tutto su Pippo Callipo. Era sicuro, il segretario, che l’imprenditore del tonno fosse l’uomo giusto per allargare il campo ai 5 Stelle e al movimentismo. Callipo alla fine non aggregò alcuno, al punto che nelle sue liste si candidarono esponenti del Pd come Graziano Di Natale. I 5 Stelle corsero per conto loro e la sconfitta fu di quasi venti punti percentuali. Addirittura Callipo dopo poco si dimise da consigliere regionale mettendo a nudo tutta la fragilità di questo progetto politico.

Naturalmente di questa sconfitta nessuno diede conto. Così come nessuno ha risposto della débâcle alle successive amministrative dove in città come Crotone il Pd non è nemmeno riuscito a presentare una lista o in posti come San Giovanni in Fiore, roccaforte storica della sinistra, dove il partito è arrivato ad uno striminzito 7%.

La lezione evidentemente non è servita. Questa volta i pochi dirigenti del Pd che hanno avuto la fortuna di partecipare alla riunione indetta dal commissario Graziano, avevano scelto Nicola Irto come candidato. Sembrava il profilo ideale: giovane (39 anni) ma con esperienza istituzionale, colto, con un buon patrimonio di consensi. Tutto a posto? No. Il commissario Graziano decide di tirare il freno a mano. La candidatura è sul campo solo virtualmente perché il partito e il candidato non organizzano nessuna iniziativa, nessuna discussione con la società civile o gli alleati. La scesa in campo di de Magistris complicava le cose con pezzi di LeU che danno il loro sostegno all’ex pm. Anche a Roma tirano il freno a mano per inseguire un’alleanza con un M5s orami completamente disgregato e forse anche con lo stesso de Magistris. Si vedrà.

La differenza fra le due esperienze è molto semplice. Un anno e mezzo fa Roma giocava di sponda con pezzi della classe dirigente locale (Irto dovrebbe saperlo), adesso non ne ha bisogno e impone le sue scelte tout court. Allora non sappiamo come finirà questa partita, ma la speranza è che segni almeno la fine di questo distorto centralismo democratico.

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