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La società dei social network ci sta abituando all’idea che qualunque offesa possa restare impunita

C’è un prete in Italia secondo cui non si deve avere pietà per un ragazza di 17 anni vittima di uno stupro solo perché, in quei drammatici attimi, era “sballata”. Questo stesso prete, quando qualcuno gli ha fatto notare l’enormità delle sue bestiali parole, ha fatto marcia indietro, aggiungendo però “il problema dello sballo”. Ecco, caro don Guidotti, consenta di osservare che c’è anche il problema degli stupri ed è pure un po’ più grave.

Ma in una ipotetica scala della gravità, dove è difficile stabilire chi stia più in alto e chi più in basso, un posto di tutto riguardo lo occupano le parole violente e inaccettabili di questo prete. Parole che incitano di fatto alla violenza e calpestano la dignità di una ragazza e della sua famiglia. Parole indegne per chiunque, ma soprattutto per chi si professa ministro di un Dio che sul perdono ha fondato la sua Chiesa. Parole che sono certamente più nocive di un qualsiasi sballo del week-end. Parole cattive, che in un Paese normale non dovrebbero cadere nel vuoto, suscitando innanzitutto la reazione delle gerarchie ecclesiastiche, che dovrebbero mettere alla porta questo signore.

La società dei social network, dove l’anonimato da strumento di libertà si è trasformato in strumento per delinquere, ci sta abituando, lentamente ma non troppo, all’idea che si possa dire tutto. Che qualunque offesa e qualunque minaccia possano restare impunite. Che qualunque cosa possa (o addirittura debba) essere perdonata.

Insomma, stiamo regredendo verso un medioevo dei rapporti umani, dimenticando quello che molti decenni fa diceva il grande Pitigrilli: duemila anni di civiltà ci hanno insegnato che non si può dire tutto. E non è solo una questione di gentilezza d’animo. Eh già, perché è inutile dire che spesso passare dalle parole ai fatti è più facile di quanto non si creda.

E mai, nemmeno per scherzo o per provocazione, si può giustificare uno stupro.

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