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ALCUNI pentiti (uno in particolare) da mesi stanno raccontando agli inquirenti vicende in cui chiamano in causa politici di primo piano dell’area urbana di Cosenza. Accuse più o meno dirette, più o meno gravi, circostanze di cui sarebbero stati diretti protagonisti o che avrebbero appreso da altri. Materiale “grezzo”, insomma, che necessita della valutazione da parte della macchina della giustizia. E fin qui tutto “normale”, nel senso che il fenomeno dei pentiti fa ormai parte della storia processuale del paese Italia, con punte esaltanti, per i tanti casi in cui collaboratori di giustizia hanno consentito di far luce su fatti gravissimi che diversamente sarebbero rimasti senza colpevoli, e punte di vera e propria barbarie per vicende in cui innocenti incolpati ingiustamente alla fine ne sono usciti con le ossa rotte, salvo che non siano morti ancora prima del riconoscimento che, a dispetto delle accuse del pentito, con quelle cose non avevano nulla a che vedere. Tutto normale anche per il coinvolgimento di politici: purtroppo non è la prima volta, né, presumibilmente, l’ultima.
Quello che invece non rientra nella “normalità” è altro. Primo: sta capitando a Cosenza in queste settimane quello che nei mesi passati era già accaduto in altre parti della Calabria, ovvero che dichiarazioni accusatorie di pentiti su politici e amministratori fossero finite allegate in procedimenti o processi che trattavano tutt’altro che le posizioni di quei politici e amministratori, con il risultato che quelle accuse sono comunque venute fuori pubblicamente, slegate da eventuali procedimenti avviati per verificare se quelle accuse siano o meno fondate. E’ certo che, per come è strutturato il sistema processuale penale italiano, nel momento in cui un pentito accusa di un reato il politico X, il pubblico ministero deve avviare un procedimento contro X, e poi, all’esito delle indagini preliminari, la pratica si avvia verso l’archivio o verso un processo (detta così per grosse linee, tralasciando i molteplici passaggi tecnici). Se, invece, per mesi e mesi, prima ancora che si abbia notizia dei primi esiti degli accertamenti sulle dichiarazioni del pentito sul sindaco di questa o quella città, quelle accuse circolano, allora le cose non vanno bene, non tanto perché rischiano di compromettere l’indagine (se un magistrato allega le dichiarazioni in altro procedimento e sa che esse verranno fuori, evidentemente sa di non metterla a repentaglio), quanto per il fatto che inevitabilmente si innesca il meccanismo per nulla affascinante e per nulla suggestivo dei processi sui giornali o dal fruttivendolo. Inutile togliere dal cilindro la solita storia che la colpa è dei giornalisti. Le notizie si pubblicano. E d’altra parte – e siamo al secondo punto per il quale l’“anormalità” assume connotati velenosi e francamente incivili – proprio quello che sta accadendo a Cosenza e dintorni ne è la dimostrazione: se anche i giornalisti non esistessero, quei verbali – fuoriusciti in questo caso per un errore tecnico, ma in altri casi, altrove, per meccanismi processuali formalmente legittimi, evidentemente – sarebbero circolati ugualmente e in cerchie sempre più ampie di persone. Fino a diventare, com’è accaduto, materiale non per pettegolezzi da bar, ma per veri e propri dossieraggi a pochi mesi da una campagna elettorale che si preannuncia infuocata.
Qua non si tratta di essere garantisti, innocentisti o colpevolisti. E’ solo un fatto di civiltà. Come si fa a fermare eventuali operazioni di discredito di massa basate su dichiarazioni di pentiti che circolano come i volantini pubblicitari dei supermercati? Tutto ciò, naturalmente, ha a che fare anche con la pochezza di un certo modo di fare “politica”, mentre non ha alcun rilievo – ma non ne potrebbe avere – con il corso naturale dell’iter giudiziario. Che il pentito tal dei tali abbia accusato di gravi reati un sindaco o un esponente politico di primo piano è fatto non di poco conto. È un fatto enorme. Non è che siccome quelle dichiarazioni sono diventate la portata principale del chiacchiericcio da strada, allora le vicende sono da considerare alla stregua di barzellette. Ma gli unici che possono fare le valutazioni sono i magistrati. Magari ci saranno riscontri e le accuse si riveleranno fondate, magari i riscontri e le indagini permetteranno di appurare che le cose sono andate in maniera diversa o parzialmente diversa, o che magari quei fatti sono totalmente dei falsi; potrebbe accadere, ancora, che verranno accertati fatti che, seppure penalmente non significativi, possono essere oggetto di pesanti giudizi di ordine morale.
A questo punto c’è solo un modo per sanare l’anomalia di questa vicenda: i magistrati devono fare in fretta, ancora più in fretta di quanto non farebbero se gli indagati fossero normali cittadini. E questo non solo perché i politici e gli amministratori tirati in ballo nelle dichiarazioni dei pentiti hanno il diritto di avere una pronuncia in tempi rapidi, ma perché lo stesso diritto – sacrosanto – lo hanno tutti i cittadini da loro amministrati, e tutti quelli che si recheranno alle urne. Sapere quali siano i fatti certi non solo spunterebbe le lance a chi eventualmente avesse previsto di fare una campagna elettorale barbara, ma ci aiuterebbe ad uscire dal pericoloso vortice che da anni ci ha risucchiati in un frullatore di cervelli con l’ormai “facile” ma non più appassionante motto secondo il quale “sono tutti ladri”. Una strada semplice, ma incivile.
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