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SULLA scia delle polemiche che la seconda puntata dell’inchiesta “mafia capitale” ha scatenato tra i partiti politici (alcuni dei quali interessati direttamente perché loro esponenti sono finiti in galera o nel registro degli indagati), il premier Renzi ha manifestato due posizioni abbastanza chiare: chi viene condannato per corruzione deve uscire definitivamente fuori dalla politica e, con riferimento – evidentemente – a un sottosegretario dell’Ncd coinvolto nelle indagini sul business dei migranti, ha detto che non chiederà mai dimissioni per un avviso di garanzia. 

In soldoni: non è sufficiente un’informazione di garanzia, ovvero la circostanza che su di lui siano state avviate indagini, per chiedere a un mio sottosegretario di lasciare il governo. Questa lettura garantistica della questione morale appare assolutamente aderente, sul piano formale, al principio costituzionale della presunzione di innocenza, per il quale l’imputato non è considerato colpevole fino alla sentenza definitiva di condanna. E forse da un presidente del Consiglio che ha giurato fedeltà alla Carta costituzionale è addirittura rassicurante, sempre su un piano squisitamente formale, sentire queste cose.

Lasciamo da parte Renzi e portiamo sul piano della sostanza ciò che la delicata e suggestiva espressione “questione morale” comprende, ovvero la posizione nei partiti (e nei posti di governo, a tutti i livelli territoriali) di persone sospettate, indiziate, indagate, accusate, o come dir si voglia, di essere dei farabutti. E’ di tutta evidenza che il giudizio di mascalzone è legato e va di pari passo con le fasi delle indagini e poi con quelle – spesso lunghe e indegne di un paese civile – dell’eventuale processo al termine del quale (esauriti tutti i gradi di giudizio) l’indagato, nel frattempo diventato imputato, sarà condannato o assolto. Ma se un esponente di governo (un sottosegretario, un sindaco, un assessore) viene intercettato mentre predispone tutto per aggiustare una gara d’appalto a favore dei suoi amici, o, poniamo ad esempio, mentre organizza una compravendita di voti, e non vi sono dubbi sul significato di quelle parole captate dagli inquirenti (che si presumono fedeli alla bandiera, non alcolizzati e non spinti da motivi privati di vendetta talmente gravi da manipolare l’intercettazione), ecco, in queste ipotesi, la presunzione di innocenza per l’interessato mantiene la sua sacralità, esattamente quanto il diritto del cittadino e dell’elettore di considerare il tizio un farabutto e di punirlo, senza obbligo di motivazione, con il disprezzo e con il non voto alle successive elezioni. La questione formale non consente deroghe alla Costituzione, ma accanto alla questione morale che teoricamente si pongono i partiti e, quindi, anche al di là di come eventualmente decidono di volta in volta di affrontarla, c’è il cittadino. Noi, le persone comuni, che pure abbiamo il diritto di inorridire di fronte a casi eclatanti di politici farabutti che non sentono il bisogno di farsi da parte senza che nessuno glielo solleciti, in nome di un garantismo di comodo che in alcuni casi con il piano etico non ha nulla da spartire. Ma le dimissioni non erano un atto di decisione autonoma? 

Comunque la si legga, la questione ha sempre e solo lo stesso soggetto debole, i cittadini. Quelli che, ovviamente, non traggono benefici dal malaffare che per tanti anni, anche in questo caso con un atteggiamento di comodo, abbiamo creduto fosse morto con la prima Repubblica. Invece, a quanto pare (o dobbiamo aspettare le sentenze definitive per fare una considerazione?) il malaffare è vivo e vegeto, coltivato come una passione irrinunciabile da vecchi della politica così come dai nuovi, quelli rampanti che si vestono come manager o trader della City.

Se bene ha fatto Renzi a ricordare il principio di presunzione di innocenza (che, per capirci, è lo stesso che vale anche quando si fanno le retate contro la mafia, magari con i tempestivi pubblici complimenti di ministri e sottosegretari prima ancora di sapere i soli nomi degli indagati), farebbero bene i partiti a fare delle campagne interne di sensibilizzazione affinché i loro iscritti con cariche di amministrazione o di responsabilità si dimettano, da soli e senza necessità di richieste pubbliche o mozioni parlamentari, nel momento in cui vengano fuori notizie di situazioni imbarazzanti. Lasciamole da parte, le sentenze. Sono altra cosa rispetto al diritto degli italiani, dei cittadini di ogni comune di essere amministrati da gente pulita. E’ un fatto di sensibilità, non di gradi del processo penale. E’ un fatto di decenza, non di Costituzione.

Se bene ha fatto Renzi a ricordarci che una informazione di garanzia è un atto talmente preliminare in un procedimento penale da poter essere considerato non produttivo di alcun effetto, bene faremmo noi a recuperare la consapevolezza che nessuna procedura ci può impedire di avere una nostra idea, un nostro giudizio, di applicare il principio dell’equilibrio – che ci appartiene come uomini prima ancora che cittadini – e di avere la pelle d’oca di fronte a politici e amministratori che, implicati in cose losche (e il cittadino a volte riesce a saperlo prima ancora dei magistrati), rimangono al loro posto nel nome di un garantismo al quale in Italia troppe volte ci si appella solo quando fa comodo. Senza contare che ci sono comportamenti che senza essere reati (e quindi al di là di ogni sentenza) da un amministratore non te li aspetti. E se arrivano, per rabbrividire il cittadino non deve aspettare la pronuncia della Cassazione. La legge penale è una cosa, la decenza un’altra.

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