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Noi e loro. Loro e noi. Mezzo secolo fa, loro eravamo noi, ma chi lo ricorda? Quest’estate a Reggio Calabria è arrivato un esercito invisibile di disperati del mare. Quanti? Non si contano più: quindicimila, ventimila. Nessuno lo sa. Storie e volti sempre uguali. Un passato da prendere a calci, un futuro da carezzare con dolcezza e diffidenza, perché un Paese sognato, inseguito tra onde assassine e temporali traditori, resta sempre un’incognita. Tra questa folla di uomini, donne, bambini a perdere, c’è chi cerca un volto caro, un nome che vuol dire amore, famiglia, affetto, tenerezza. Un’idea di nuova vita.

Omar lo fa da mesi, ormai lo conoscono tutti. Appena vede i pullman che da Salerno partono verso Reggio per andare a prendere i migranti, Omar ci sale su, con il cuore in tumulto. Corre in Calabria per vedere se moglie, figli, fratelli, sorelle sono riusciti ad acciuffare il viaggio giusto. Finora non è stato così, ma lui non s’arrende. Aspetta. Aspetta. Aspetta.

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La sua vicenda porta alla mente migliaia di esistenze, che si consumano in attesa del giorno giusto, quello che ti rimette in pace con il dolore, che placa il morso che ti azzanna l’anima, che ti risarcisce della malasorte. C’è chi nell’attesa è impazzito. A Omar l’augurio che il prossimo sia l’ultimo viaggio a Reggio e che tra la folla dell’umanità dolente ci siano i volti cari che cambiano il destino. Quelli che lui aspetta. La sua attesa ricorda quella di una donna alla stazione centrale di Napoli, tanti anni fa. Un amore perduto, un sogno sfumato su un treno partito. E lei lì su quei binari a sperare che quel fidanzato avesse anche il biglietto di ritorno. I giorni sono diventati mesi, i mesi anni. Tanti anni, troppi. Fino a sconvolgere la mente. Quella donna è sempre lì: da innamorata piena di speranza, diventa nella sofferenza una profuga della vita, incapace di ripartire per un altro sogno. Fino a trasformare la stazione ferroviaria e le sale d’aspetto nelle pareti della sua esistenza. Ogni volta che l’altoparlante annuncia un treno da Roma, lei corre: prima veloce, poi con gli anni lenta, appesantita dalla delusione e dalla follia, ma non rassegnata. Aspetta che quell’uomo scenda, torni tra le sue braccia, le dia un bacio per riprendersi l’amore inseguito sui tabelloni di un orario ferroviario. Non avverrà mai. E allora anche la mente si perde, come quei disperati che partono senza una destinazione precisa e spesso finiscono negli abissi di un mare amaro. 

Una vita su una stazione, fino a una notte gelida d’inverno, quando tra i binari deserti arriva un passeggero particolare: è papa Wojtyla. Viene da uno dei suoi viaggi in Medioriente, la nebbia blocca gli aeroporti, il viaggio per Roma deve proseguire in treno. Wojtyla e lei si incrociano sul marciapiede del binario numero 12. La donna ha tutto la sua vita raccolta nelle buste di plastica, che trascina come un fardello da espiare. Lui rimane sorpreso di vederla a quell’ora, con quel freddo. Si sfila la corona del rosario e la mette al collo della donna. Per la prima volta qualcuno si accorge della sua esistenza. Lei urla di gioia, grida a tutti che ha visto il Papa e si perde nella notte, baciando la croce. I primi baci dopo trent’anni di attesa al binario 12.

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