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UNO dei nostri problemi è che oggi non si usa tanto portare il cappello. Diciamoci la verità: se, come in tempi remoti, indossare un copricapo fosse normale (e non solo di tendenza o per insuperabili necessità legate alle basse temperature), paradossalmente saremmo più allo scoperto. Già, perché per capire esattamente quanto i calabresi “rispettino” i piccoli e grandi uomini della ’ndrangheta (nella loro gerarchia, s’intende), non sarebbe necessario soffermarsi e passare ore e ore a discutere se una statua sacra in questa o quella processione sia stata fatta inchinare, e con quale inclinazione soggetti diversi dai beati. Sarebbe sufficiente osservare se al passaggio del boss di turno la gente si leva il cappello e china la testa.
Ma i cappelli sono in disuso e allora per renderci conto se la Calabria è malata di quel cancro ci si sofferma sulle feste di paese, come se non avessero alcun valore tutti gli altri milioni di segnali indicatori che non solo il cancro c’è, ma che la metastasi sta distruggendo un organismo indebolito anche da altre patologie (le conosciamo bene pure: corruzione, malamministrazione…).
Due o tre cose per sgombrare il campo da possibili spunti equivoci: se in una processione gli uomini fanno inchinare la statua e c’è anche solo il remoto sospetto che ciò sia stato fatto per omaggiare esponenti della criminalità, allora le forze dell’ordine e la magistratura hanno il dovere di approfondire (e i calabresi non possono che essere loro grati perché fanno il loro lavoro, evidentemente non per interessi privati). E se ci sono accertamenti in tal senso, i giornali fanno semplicemente il loro dovere nel raccontarne. Senza rivendicare o attribuire al lavoro dei giornalisti significati che oggettivamente non ci sono: quelli devono raccontare e se lo fanno, i calabresi dovrebbero apprezzarlo, quantomeno quelli (e sono tanti) ai quali molte cose di questa terra ancora non piacciono.
Se la Chiesa ritiene di dover regolamentare (come hanno deciso di fare i vescovi calabresi) iniziative che possano in qualche modo contrastare la criminalità e le ingerenze mafiose nei riti religiosi, tutto ciò non può che riempire di gioia e di speranza non solo i fedeli.
Le parole di papa Francesco a Sibari sulla ’ndrangheta (i mafiosi sono fuori dalla comunione, sono scomunicati), al di là della portata storica, hanno innescato forse anche aspettative di comodo, una specie di sollievo nella coscienza collettiva (della serie: ora il problema lo risolve la Chiesa). Non è e non potrebbe essere così.
Il problema (chiamatelo ’ndrangheta prima di tutto, chiamatelo corruzione, chiamatelo speranze mortificate, chiamatelo come vi pare) lo possiamo risolvere prima e soprattutto noi, i calabresi, imparando a dire no, imparando a non lasciarci tentare da scorciatoie che portano dritte negli abissi, ma anche cominciando a dire sì, a partecipare, a rieducarci all’esercizio della libertà. Diciamo sì alle iniziative che si stanno svolgendo in questi giorni per una Calabria nuova, a Copanello come nella Locride, a Reggio come in qualsiasi piccolo altro lembo di questa terra. Facciamo sentire che ci siamo, che siamo stanchi di essere spettatori e vogliamo cominciare a essere protagonisti. Una piccola cosa, per esempio: pretendiamo da chi – alla fine di un lungo e per certi versi poco comprensibile travaglio – si candiderà a guidare la Regione che come primo atto metta mano alla questione depurazione e ci restituisca il mare pulito (oggi gli amministratori, a tutti i livelli di responsabilità, si dovrebbero solo vergognare, e magari pubblicamente… chiedere scusa, a volte, è segno di lungimiranza e non di resa).
I magistrati vadano avanti, i preti e i giornalisti pure. Ma tutti i calabresi che amano la Calabria siano presenti e attivi, sin dalle piccole cose, chinino la testa nelle giuste direzioni, consapevoli del valore del rispetto che nulla ha a che fare con la sottomissione.
Un pensiero, a proposito della Calabria che ci piace e dei calabresi che fanno con passione il loro lavoro, va al nostro collega Michele Albanese: per un pericolo accertato dagli inquirenti, da alcuni giorni vive sotto scorta, sostanzialmente per aver raccontato. Raccontato, niente di più, come il suo dovere gli imponeva e gli impone. Michele non è solo, e accanto a lui siamo in tanti: centinaia le attestazioni di vicinanza e solidarietà arrivate in queste ore, proprio perché in tanti, tantissimi, siamo convinti che senza la libertà questa nostra terra non va da nessuna parte. Non importa se non portiamo più il cappello.
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