LA vita non è un colpo di fortuna. Ci sono però molti italiani che credono l’esatto contrario: sono i quasi due milioni di giocatori che ormai sono considerati a rischio perché molti di essi sono presi dalla ludopatia, sindrome di tipo compulsivo che divora le sostanze dei giocatori e delle relative famiglie. Questo gioco, che è chiaramente d’azzardo, è diffusissimo nella nostra patria, non solo nei famosi casinò, ma in ogni città e contrada. Si può tentare la fortuna giocando, scommettendo o “grattando” nei bar, nelle tabaccherie, nelle edicole, in piena libertà e, soprattutto, senza alcun limite. Esso rappresenta la quinta “industria” della nostra economia, dopo Fiat, Telecom, Enel e Fincantieri, ma è la prima per tasso di incremento annuo.
Comunque copre il 2% del Pil. Lo Stato spende ogni anno cinquanta miliardi di euro per la Pubblica istruzione ed è la stessa cifra che gli italiani spendono nel gioco d’azzardo ogni anno. Una cifra enorme, che colloca il “bel paese” al terzo posto nel mondo, preceduto solo da Giappone e Regno Unito. Si calcola che a giocare sia l’80% delle persone: chi ogni tanto, chi spesso, chi tutti i giorni e chi più volte al giorno. E proprio questa attrazione per i tavoli verdi, i “gratta e vinci” e le slot machine, quella che ormai tutti definiamo ludopatia, ovvero Gap (gioco d’azzardo patologico).
Un fenomeno che è dunque una vera e propria emergenza sociale, sulla quale investe anche la criminalità organizzata, che con l’usura finanzia i giocatori patologici contribuendo alla loro rovina. Una piovra che allunga i suoi tentacoli mortali promettendo molto e sradicando moltissimo. Una piaga da arginare perché costituisce una fuga disperata da una realtà ritenuta ingrata, o seducente sirena di vita facile, ma che si rivela come abbruttente dipendenza che deforma l’umano dell’uomo e sconquassa le famiglie.
Non c’è dubbio: «Un giocatore perde sempre. Perde denaro, dignità e tempo. E se vince, tesse intorno a sé una tela di ragno». Mosè Maimonide, filosofo ebreo vissuto nel XII secolo, non lasciava spazio a interpretazioni: il gioco, quando supera i confini dello svago, non giova all’anima, figurarsi alle tasche. E la sua riflessione resta attuale anche ai giorni nostri, in cui l’enorme crescita del gioco d’azzardo è un problema grave, poiché genera una discrasia fra legalità e moralità. Ma i danni non si riducono a questo: in palio vi è l’equilibrio della società intera, poiché è la complessiva dimensione spirituale dell’uomo a essere intaccata, non le sole risorse economiche.
Il miraggio di una vita sempre in vacanza deriva dalle storture educative e culturali tipiche della nostra epoca, che relegano a cose d’altri tempi l’impegno quotidiano, la fatica, la disciplina: oggi, anche attraverso la falsità sistematica di certa pubblicità, si vuol far credere che la sostanza del tempo risieda nel successo e nell’apparenza, nella quantità delle esperienze gratificanti, e che per ottenere questa patina luccicante sia inevitabile tentare la sorte. Certo, come riconosce il Catechismo della Chiesa cattolica, «i giochi d’azzardo o le scommesse non sono in sé contrari alla giustizia. Diventano moralmente inaccettabili allorché privano la persona di ciò che le è necessario per far fronte ai bisogni propri e altrui» (CCC, 2413). Ma l’uomo non deve dimenticare che anche se il gioco può farlo vivere meglio, non può di certo divenire l’unico perno della vita, che gli è stato dato in dono, né deve dimenticare che se seguirà la propria coscienza, la propria etica, arricchita dall’educazione cristiana, potrà trovare un valido ed eccellente orientamento all’altro grande dono: la libertà, che è capace di grandi cose, specialmente se è aiutata dalla costanza, dalla dedizione, dalla laboriosità, dall’altruismo e dall’amore: tutti valori senza tempo ben più grandi di ogni interesse…
Per non smarrire questa verità è necessario coltivare la virtù della temperanza, quella che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati. Temperanza, moderazione ed equilibrio sono forse gli elementi mancanti nella cultura contemporanea, soprattutto nel campo delle dipendenze. Ma è anche dall’educazione illuminata dal messaggio cristiano che si deve ripartire, per formare individui che abbiano una serena e piena coscienza delle proprie capacità e dei propri limiti senza depressioni o presunzioni. Tuttavia, oltre all’impegno personale di ognuno, è compito dello Stato garantire la tutela dei cittadini, moderare quell’attrattiva dei piaceri (se potenzialmente pericolosi) anziché fomentarla. È compito dello Stato mettere in secondo piano il proprio interesse economico a favore del bene della collettività. Ed è lo Stato che deve riappropriarsi di una moralità e di un’etica che rischia di essere trascurata. Un ritorno a un tempo che non c’è più? No. Solo l’invito a portare con sé nel futuro ciò che davvero conta. Perché, ricordava Martin Luther King, «se vogliamo andare avanti dobbiamo tornare indietro e riscoprire quei preziosi valori e ricordare che la realtà poggia su basi morali e spirituali».
*arcivescovo di Catanzaro-Squillace