3 minuti per la lettura
QUANDO uno scrittore è in viaggio, dobbiamo necessariamente aspettarci una trasfigurazione del reale, che, però, non è deformazione della verità storica dei luoghi ove egli si reca, visita, osserva registra nella sua mente indagatrice. Chi legge deve farlo con mente sgombra da pregiudizi, concio che un artista (specie un poeta) non può non usare l’iperbole allorquando – ad esempio – si trova dinanzi ad una realtà complessa come quella calabrese.
Pasolini amava il popolo, i volti scarni dei contadini, gli emarginati delle periferie romane, ch’erano gli ultimi rappresentanti di un mondo sconvolto dalla storia, dalle guerre, dal liberalismo sfrenato che galoppava già da allora senza alcun ritegno e con esiti nefasti che lui aveva profeticamente intuito. Nel suo scritto sulla Calabria, su Cutro, c’è solo il desiderio di svelare il fascino di un mondo che non riesce a scrollarsi di dosso il mito della Magna Grecia, il provincialismo imperante e, soprattutto, un atavico “complesso d’inferiorità” che, nel tempo, si è trasformato in “psicologia patologica”, ““mania di persecuzione”. Più che un giudizio definitivo, è il tentativo di spronare un popolo che aveva/ha bisogno di ancorarsi alla storia, di rimanere al passo con i tempi, di andare avanti senza il peso del vittimismo e dell’imperante malaffare.
L’inedito carteggio tra P.P.Pasolini e Pasquale Nicolini, ufficiale sanitario di Paola, pubblicato su questo giornale domenica 22 luglio c.a. (grazie al generoso impegno di Roberto Losso), seguito dagli interessanti interventi di Vito Teti, Bruno Gemelli, Antonio Anastasi, Ottavio Cavalcanti e Filippo Veltri (Il Quotidiano del 25 luglio c.a.) e di quelli degli ultimi giorni contribuisce notevolmente a far discutere della nostra terra con maggiore coscienza critica, evitando inutili barricate, tantomeno proponendo stereotipi che non hanno più alcun motivo di esistere.
Gli interventi degli intellettuali sopra indicati, chi per un verso chi per un altro, viaggiano, per fortuna, in tale direzione. Tuttavia, se un intellettuale come Vito Teti, che, tra l’altro, ha scritto “La razza maledetta” (storia dei pregiudizi storici attorno al Sud e alla Calabria) arriva a dichiarare che «La nostra presunta “identità” è fatta di retoriche e di fughe all’indietro, nella tendenza a magnificare una “classicità” scomparsa e non “viva” e realmente rigeneratrice, come aveva ricordato Alvaro.
Un’identità non per sé o in relazione all’altro, ma spesso contro l’altro, fatta di risentimenti, di rivalse, di richieste, di lamentele, di localismi, di leghismi alla rovescia. La psicologia della persecuzione, che spesse volte si trasforma in psicologia degli assediati e che si traduce nella difesa, comunque, di un “noi” che tende ad assegnare le colpe di quello che accade sempre agli altri, ai forestieri, ai governanti nazionali, a chi non ci comprende, a chi ci sfrutta. Pasolini metteva in guardia contro questa psicologia e, invece, abbiamo fatto di tutto perché la sua “profezia” (temuta) si avverasse”[…], ciò vuol dire che serve un impegno nuovo, concreto, lontano da quanto odora di mera manna caduta dal cielo».
Vorrei in questa sede, invece, proporre la risposta che Pasolini dà alla lettera di un “operaio” calabrese (tra il 1960 e il 1965 Pasolini, attraverso le pagine di “Vie Nuove”, il settimanale del Partito comunista italiano, è impegnato a tenere una rubrica di “dialoghi” con i lettori), dalla quale è possibile comprendere che egli non nutriva alcun pregiudizio nei confronti della nostra terra, che il suo era solo un modo per conoscerci meglio, per aiutarci a conoscerci meglio, anzi.
Tutto ciò contenuto nel volume Pier Paolo Pasolini, Le belle bandiere, Dialoghi 1960/1965 (a cura di Gian Carlo Ferretti), Editori Riuniti, II edizione febbraio 1996, pag. 89 – 92 , che raccoglie tutti i “dialoghi” con i lettori da Pasolini sul settimanale “Vie Nuove”.
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA