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Catena Fiorello

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Catena Fiorello in Calabria per presentare Ciatuzzu: «Amo così tanto la Calabria che con Sicilia e Salento è una delle mie terre di elezione»

DOPO Picciridda, Catena Fiorello Galeano torna in libreria con Ciatuzzu (Rizzoli), per raccontare di infanzie non vissute, cui è stato negato il diritto alla felicità. Lo fa attraverso la storia di Nuzzo, in un romanzo sulla perdita e la rinascita. Nuzzo, bambino siciliano che negli anni Sessanta, persa la madre, è costretto a lasciare il suo paese e a emigrare, seguendo suo padre minatore in Belgio, in un viaggio emozionante dentro al cuore di un bambino.

CATENA FIORELLO IN CALABRIA PER CIATUZZU

Catena Fiorello è stata in Calabria per un mini tour promozionale dal 23 al 26 febbraio scorsi (con eventi ed incontri pubblici realizzati a Reggio Calabria, Soverato, Catanzaro, Siderno e Vibo Valentia) per presentare il suo romanzo Ciatuzzo e incontrare i suoi lettori.
L’abbiamo intervistata per farle raccontare al Quotidiano del Sud i segreti e le visioni della sua ultima opera letteraria ed anche il suo rapporto con la Calabria.

I TEMI DOMINANTI IN CIATUZZU

Al di là del protagonista ci sono 4 temi dominanti nella storia di Ciatuzzu. La perdita della madre, il viaggio, la migrazione e il rapporto tra dignità e lavoro. Questi temi come si fondono nel suo rapporto quotidiano con il reale?
«I temi che lei esplicita nella domanda sono a me molto cari. Comincio dal primo, quella della perdita della madre, esperienza che riassume per me il dolore più grande, il distacco più forte che una persona possa vivere. Nel libro affronto questo dolore, perché è di fronte a una perdita così grande che ci riveliamo, è di fronte a una prova del genere che emergono le nostre caratteristiche, che viene fuori la nostra personalità, la maniera in cui rispondiamo agli urti, ai dolori, alle privazioni. E la perdita mi permette perciò di investigare non solo il personaggio che racconto sulla pagina, ma tutto il suo mondo. Non ci sono solo i viaggi legati alla vacanza e al piacere, alla scoperta di luoghi e amenità, piacevoli pause della vita.
Ci sono anche quei viaggi che intraprendiamo e che ci portano lontano, alla ricerca di un lavoro, di un luogo e di una dimensione in cui sia possibile ricostruire un’esistenza dignitosa. Siamo persone nate e cresciute nel sud dell’Italia, abbiamo una certa dimestichezza con la migrazione. L’idea di raccontare l’emigrazione di tanti italiani verso terre lontane è un tema ossessivo nei miei romanzi, perché la migrazione è una vicenda che ha segnato per secoli la nostra storia di popolo del Sud. E si collega al tema della dignità, perché si parte alla ricerca di un lavoro, di un altrove che ci consenta di lavorare, guadagnare e dunque di vivere dignitosamente.
Sono veramente temi a me molto cari, che si fondono nel mio quotidiano di continuo, mi basta osservare la realtà che ci circonda per avere la certezza che ancora oggi la garanzia del lavoro e la dignità che ne consegue non sono garantiti a tutti. Ancora oggi, nel 2023».

IL VALORE DELL’INFANZIA E IL DESIDERIO DI CONSERVARLA IN NOI

L’infanzia con le sue componenti positive dominanti, può essere perduta coscientemente? Oppure, come avviene al suo protagonista, l’istinto di sopravvivenza è così spiccato nella natura umana da esserlo anche nel bambino che diventa uomo prima del tempo quando deve?
«Credo che l’infanzia, la sua dolcezza, sia una fase della vita che tendiamo a preservare e a conservare nel tempo, un sentimento che rimane dentro ognuno di noi. Perciò, anche quando racconto di bambini la cui infanzia è stata molto difficile, che sono stati costretti a diventare adulti anzitempo, ritrovo in loro quella magia che fa parte della natura umana, quella capacità di recuperare parte di quella meravigliosa gioia dei bambini che si conserva negli anni. Nuzzo, il protagonista di Ciatuzzu, ne è assolutamente la rappresentazione, malgrado tutto. Racconta la storia di un’infanzia che rimane comunque perfetta nei suoi ricordi, malgrado i dolori, malgrado le mancanze, malgrado le privazioni».

La scelta di rendere un bambino protagonista del racconto, di narrare il suo viaggio, la sua ricerca di una dimensione di sicurezza è una scelta finalizzata a creare un parallelismo tra una storia italiana, siciliana, e le tante storie similari di natura internazionale che caratterizzano le cronache recenti?
«La scelta di raccontare il viaggio di un bambino, inteso anche come esperienza interiore, nasce dal desiderio di smuovere, pungolare le coscienze. Perché le infanzie non vissute, quelle alle quali è negato il diritto alla felicità, non appartengono solo al passato, sono ahimè un dramma assolutamente attuale, un’urgenza del nostro tempo. È forse inutile ricordare che basta guardarsi in giro, dalla Siria all’Afghanistan, dall’Iran all’Africa al Brasile. Ma poi, basta guardare anche più vicino, alle tante periferie delle città italiane che raccontano i disagi dell’infanzia. Mi sembrava giusto ricordarlo. D’altronde, in esergo al libro, scrivo: Ai bambini che non hanno, non possono, non chiedono. Queste infanzie, che nulla posseggono, hanno però occhi che urlano la propria disperazione. Dare loro una voce mi sembrava un atto dovuto, il mio protagonista non poteva che essere un bambino».

CATENA FIORELLO E LA SCRITTURA

Scrivere per lei ha una valenza catartica? E se sì, così è, qual è la catarsi che questa sua ultima opere le ha donato?
«Lo dico sempre, lo ripeto anche in questa intervista: leggo per difendermi dall’ignoranza, scrivo per proteggermi da me stessa. Spesso e volentieri, anche prima di addormentarmi, faccio pensieri sofferti, dolorosi e contorti. Ma questi stessi pensieri, nel momento in cui diventano parole che scrivo al computer, si trasformano in altro. Questo è per me la scrittura, la possibilità di mettere sulla carta i miei dubbi, le domande che mi faccio e che restano in sospeso. La scrittura diventa una seduta di psicanalisi, mi permette di trovare le risposte che cerco. Riflettere, pensare, approfondire, e poi, piano piano, trovare la via d’uscita grazie alla scrittura».

Il cinema e la scrittura sono due linguaggi molto differenti, forti di meccanismi narrativi a volte incompatibili. Dal suo romanzo Picciridda è stato tratto l’omonimo film per la regia di Paolo Licata. Il romanzo trasformato in film è stato tradotto in un nuovo linguaggio o tradito? Qual è dunque il suo rapporto con i suoi figli letterari che diventano pellicola?
«Succede spesso che l’autore di un libro lamenti il tradimento della trasposizione cinematografica, cosa che invece non mi è accaduta assolutamente. Per quanto mi riguarda, più volte ho detto che Paolo Licata aveva raccontato in una maniera perfetta ed egregia il mio romanzo, e che anzi, forse aveva superato il romanzo stesso. Tanto che Paolo alla fine rispondeva di non meritare questi complimenti. Ma io credo invece di sì, e ne sono convinta ogni volta che rivedo Picciridda: Paolo Licata ha reso poetico il mio racconto».

CATENA FIORELLO E IL SUO RAPPORTO CON LA CALABRIA

Infine, il suo rapporto con la Calabria, come potrebbe essere definito in una frase che le è cara?
«Quello con la Calabria è per me un rapporto riuscito, parola che metterei tra virgolette, per spiegare che è un rapporto privo di qualunque conflittualità. Tutte le mie aspettative rispetto a questa terra sono sempre state esaudite. Si dice che i calabresi, apparentemente chiusi, siano nella sostanza aperti, generosi, affidabili, concreti. Per me è assolutamente così, e amo così tanto questa terra che fa parte, con la Sicilia e il Salento, delle mie tre terre di elezione. Sono terre che mi raccontano e mi rappresentano perfettamente, potrei essere calabrese, siciliana o salentina. Dunque sì, la Calabria è una terra che si può dire a me molto cara»

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