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Vincenzo Franza, amministratore delegato di Caronte&Tourist

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Parla l’ingegnere Vincenzo Franza, ad di Caronte & Tourist: «Siamo come la colla dello Stretto, durante la costruzione del Ponte saranno anni d’oro, poi il traffico non calerà. Diventerà un’attrazione come la Torre Eiffel»


«SIAMO traghettatori, non armatori – ti dice –. Lavoriamo spostando gente, auto, camion e problemi da una parte all’altra dello Stretto di Messina e su altre linee brevi. E, sì, siamo favorevoli al Ponte perché pensiamo che, se lo faranno, nei prossimi dieci/quindici anni, durante la costruzione, avremo molto lavoro in più. Poi, comunque, non ce ne toglierà. E dopo? Dopo, chissà dove saremo e cosa faremo…».

L’ingegner Vincenzo Franza è l’amministratore delegato del gruppo Caronte & Tourist Isole minori. L’abbiamo voluto intervistare proprio a partire dalla questione del Ponte e da questa posizione (che non t’aspetti) di favorevole all’opera. A poco a poco, da quello che ci ha raccontato sull’attività e il lavoro del suo gruppo, abbiamo compreso quella posizione che è ineccepibile dal punto di vista imprenditoriale. Se non faranno il Ponte, Caronte & Tourist continuerà a lavorare e a guadagnare, se lo faranno ne avrà grossi vantaggi per molto tempo.

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Dottor Franza, ci può dire quello che fa Caronte & Tourist?

«Più che armatori, noi siamo traghettatori. L’armatore è quello che si presenta con una nave, fa l’affare e se ne va. Noi lavoriamo sul territorio, tra terra e mare e abbiamo un rapporto diretto con le comunità locali. Lo Stretto, per noi, è centrale ma, col crescere e il cambiare delle esigenze, le navi non più idonee per il traghettamento sono state reimpiegate su rotte un po’ più lunghe: a partire dalle isole Eolie, quelle più vicine alla Sicilia, fornendo il servizio pubblico di trasporto. In pratica, gestiamo la continuità territoriale a mezzo nave con tutte le isole della Sicilia. Con le vecchie navi dello Stretto serviamo la linea Isola della Maddalena-Palau in Sardegna. All’isola d’Elba partecipiamo al servizio di traghettamento fornendo naviglio a una società collegata, la BluNavy. Unica eccezione alla logica del traghettamento puro è la nostra linea Messina-Salerno, che è tecnicamente un’autostrada del mare fatta da una nave molto grande e diversa: è come fosse un prolungamento dello Stretto di Messina che si estende fino a collegare Messina a Salerno».

Come funziona l’autostrada del mare? Molti anni fa ci furono tentativi da Genova a Gioia Tauro, ma non durarono a lungo…

«Il nostro collegamento da Messina a Salerno è orientato al trasporto delle merci siciliane come l’ortofrutta e il fresco, cioè merci più “ricche”. E, pur essendo relativamente breve, funziona perché risponde a esigenze del ciclo di queste merci. La raccolta della frutta si fa al mattino. Viene poi pulita e messa nelle cassette. Nel tardo pomeriggio si caricano i camion che partono alla volta di Messina con destinazione finale il Nord Italia. Avendo già fatto alcune ore di attesa, quando arrivano sullo Stretto hanno consumato il turno di guida previsto per legge. Quindi, imbarcarsi la sera e scendere al mattino a Salerno conviene: le ore di sosta le fanno sulla nave e risparmiano oltre 400 km di strada. Quando sbarcano hanno un turno intero di guida che permette di arrivare a destinazione. Le autostrade del mare servono se “tagliano” una curva del territorio molto lunga da percorrere su strada. Ad esempio, tra Genova e Palermo (1.374 km via terra e 770 km via mare; ndr) conviene. Lo stesso nel nostro caso: lo Stretto è comunque un nodo di costo. Il traghetto fino a Salerno permette di evitare soste e risparmiare».

Dunque, il vostro lavoro si svolge a stretto contatto col territorio. Questo pone problematiche particolari rispetto alla semplice gestione di una linea di navigazione. Ci può dire quali?

«In generale, oggi, si lavora tanto per la fase green delle aziende. Prima di tutto la decarbonizzazione. A fine anno, sullo Stretto, avremo in servizio tre traghetti, l’Elio, il Pietro Mondello e la Nerea alimentati a gas liquido che è il preludio al biogas e, magari, arrivare ad avere uno stabilimento di produzione del biogas utilizzando gli scarti biologici. Con questo carburante naturale si azzerano le fonti carboniche. Sullo Stretto di Messina c’è un continuo ricambio e aggiornamento tecnologico delle navi, dei sistemi di pagamento, del telepass, paypal, biglietti sostituiti dal Qr Code. È l’informatizzazione del sistema logistico, per una più efficiente gestione dello stesso».

Una nave che vita ha, dal punto di vista commerciale?

«Una nave ha due vite, una tecnica che va dai 25 ai 50 anni, commercialmente dipende dall’attività e dal servizio che svolge. Nello Stretto, quando c’erano momenti di traffico importanti, la vita commerciale delle navi era di 15-20 anni, poi le destinavamo ad altri mercati. Oggi, la vita commerciale più o meno corrisponde a quella tecnica. Poi, le novità tecnologiche rendono conveniente una sostituzione. Ma si usano tranquillamente traghetti più vecchi perché le navi sono sottoposte a continui cicli di manutenzione, come gli aerei, che, in pratica, le rinnovano. Alla fine, non è la stessa nave, è un po’ come il fiume di Eraclito: panta rei, ovvero è, ma non è lo stesso; tutti i pezzi sono nuovi, quindi non è la stessa nave costruita vent’anni fa. Di quella forse è rimasto solo lo scafo».

Lei ha detto prima una cosa importante: attività come la vostra hanno un forte radicamento territoriale. Cosa significa, in pratica?

«Siamo appunto traghettatori. Come dicevo, noi non possiamo fare come gli armatori che prendono le navi e se ne vanno. Noi non sapremmo dove andare. Abbiamo una vocazione naturale a un rapporto continuo con i territori e con la clientela per soddisfare al meglio le esigenze della gente e del territorio. Io passo metà del mio tempo a sentire i sindaci delle isole che dicono che la nave è arrivata tardi, che serve una cosa, che c’è la vecchietta col bambino. Ve ne racconto una che è di stamattina fresca fresca: mi hanno avvisato che si presenterà all’imbarco una specie di carrozza, una come quelle delle favole dei fratelli Grimm. La traghetteremo con molta attenzione perché i cavalli non amano le navi. Un’altra volta c’era un signore che veniva dal Nord Europa con l’asino e voleva arrivare fino in fondo alla Sicilia. Quindi, si presenta col ciuco per traghettare. Panico, perché l’asino non voleva salire. Così tutti si misero a tirarlo, ma lui, niente: bloccato. Una scena persino divertente. Alla fine lo dovettero caricare su un camioncino e poi traghettare il camioncino. Ma si verificano anche situazioni serie o tristi: come il trasporto dei morti per le isole. Molti vogliono essere sepolti sull’isola natia… A volte, magari, non c’è posto a bordo, ma non vuoi aggiungere disagio al dolore e quindi devi inventarti una soluzione per accontentare le persone che accompagnano una bara e non puoi farle aspettare. Insomma, fai parte del tessuto civile di dove operi».

Anche il protocollo con i comuni di Villa e Messina per le punte estive, con i biglietti validi per qualunque traghetto in partenza indipendentemente dalla compagnia, viene incontro alle esigenze del luogo

«Sì, quello ha funzionato bene… Ma sono procedure messe a punto nel corso degli anni con le prefetture per ottimizzare al massimo i passaggi. Applichiamo in continuazione meccanismi di questo tipo: quando l’autostrada chiude c’è tutto un coordinamento che deve sempre scattare. Perché se tu non avvisi poi ti ritrovi il camion in banchina».

A proposito, si parla dello spostamento a Sud del porto. A che punto è la questione?

«Noi abbiamo presentato il primo progetto 25 anni fa, quando si cominciò a parlare di Tremestieri, ricordando che, quando si tratta di traghetti, i porti da creare sono due: uno per lato dello Stretto. Se ne costruisci uno solo, non vai da nessuna parte. Ma purtroppo ancora, in Calabria, non c’è nulla. Quindi ci troveremo con la barzelletta di un porto finito da un lato e niente dall’altro. Questo è il sintomo della schizofrenia italiana e della mancanza di un coordinamento anche interregionale, perché lo spacchettamento delle competenze in sede regionali porta a questi mostri. La Sicilia realizza un porto per far uscire le cose, ma in Calabria non c’è un porto per accoglierle».

Voi, dunque, rappresentate il punto di partenza di questa “Area dello Stretto” di cui si parla da un po’ di tempo?

«Sì, l’anello di collegamento. Ci sono tre anelli della catena del traghettamento: treni, mezzi veloci per le persone, auto e camion. Noi facciamo auto e camion. Siamo la colla che unisce i due territori e crea l’area integrata. Ma partiamo dalle autorità di sistema portuale. In Sicilia sono due, Catania e Palermo. perché le Sicilie sono sempre due. Le Calabrie, invece, sono quattro, però hanno costituito una sola autorità di sistema portuale. Poi è nata questa idea dell’area dello Stretto che non ha alcun significato perché le aree di sistema portuale dovrebbero gestire i grandi traffici che entrano ed escono. La mia proposta è sempre stata un’altra: i porti siciliani devono far parte della Sicilia orientale; i porti calabresi devono stare nella programmazione calabrese. Nello Stretto ci vuole un’agenzia della mobilità, un ente sovracomunale e sovraregionale che possa gestire la mobilità.

Quindi, mettere al centro più la mobilità che il porto?

«Esatto, puntare l’attenzione sulla mobilità. In Italia ci sono importanti agenzie della mobilità, come in Piemonte e in Emilia. Esistono dove serve raccordare pullman, treni, aerei, camion, macchine, strade, tutto per garantire la mobilità di un sistema. Il nostro non è un problema di porti, ma di mobilità. La questione della mobilità parte dalla necessità di collegare due pezzi di territorio. Un’agenzia della mobilità si sarebbe posta subito il problema: facciamo un porto di qua e non lo facciamo di là? La politica, invece, si muove solo quando le cose non funzionano. A Messina c’è il problema: fanno il porto a sud, ma nessuno dice: “dobbiamo farlo anche in Calabria”. Manca una programmazione di sistema. Non c’è un signore che dice: “io sono l’area integrata dello Stretto e ogni volta che avete un problema dovete parlarne con me”. Così, invece, siamo sempre in sede locale: ogni tanto, addirittura, siamo noi che avvisiamo la parte calabrese che, per esempio, lato Sicilia chiudono un’autostrada: “Eccellenza Prefetto, forse bisognerebbe avvisare anche il collega dall’altra parte….”».

Cioè, vi tocca traghettare anche i problemi?

«A volte devi far presente che se noi qui blocchiamo questo, anche in Calabria avranno un problema. Quindi avvisiamo e fra di loro decidono chi segue la questione. Perché, poi, le istituzioni sono velocissime a trovare subito chi si mette al lavoro per risolvere la cosa. A volte, però, si scordano di avvisare. È vero: a volte traghettiamo anche il problema. Quindi servirebbe un’agenzia della mobilità dello Stretto, perché l’agenzia affronterebbe qualunque problema come un problema di sistema, senza badare se siamo di qua o di là».

Dottor Franza, qual è la vostra posizione sulla realizzazione del Ponte sullo Stretto?

«Per rendere più semplice la mia risposta faccio uno schema a tre livelli. Innanzitutto, noi siamo un gruppo imprenditoriale, siamo su Messina/Villa San Giovanni e siamo anche siciliani: sono tre modi di vedere la cosa diversi uno dall’altro, però ogni piano ha la sua opportunità. Per quanto riguarda il livello imprenditoriale, a questa azienda dicono che spenderanno 14 miliardi di euro nell’arco di una decina d’anni, in un territorio dove sostanzialmente noi siamo la famosa cerniera che unisce tutto. Fatturiamo 80 milioni di euro l’anno, quando va bene, e qui spendono 14 miliardi; quindi, per un gruppo imprenditoriale è un’occasione d’oro perché vorrà dire dieci anni di ricchezza sul territorio. Per costruire il Ponte servono le navi per traghettare materiali e noi ci siamo».

E dopo questi dieci anni di abbondanza?

«Dobbiamo pensare che in tutti i posti dove si sono creati ponti le navi non spariscono, ma cambia il modello di funzionamento e tipicamente rimangono sia l’uno che le altre. Così è con tutti i ponti del Bosforo così come in Inghilterra, collegata addirittura con un treno ad alta velocità; e anche a Oresund, dove un ponte collega Danimarca e Svezia, c’è un’autostrada e ci sono le navi, perché il trasporto marittimo può garantire maggiore flessibilità».

Dotto Franza, quale vantaggio ci sarà nello scegliere i traghetti dopo la costruzione del Ponte sullo Stretto?

«Già adesso partendo da Tremestieri con i camion si ha un risparmio di quasi 18 km di strada rispetto al percorso del Ponte; poi per la tratta Messina-Reggio Calabria converrà usare la nave, perché faremo sempre prima col mezzo veloce via mare. Poi ci sono tipologie di traffico che non hanno fretta, ma hanno bisogno di servizi. Non dimentichiamo che per guardare il Ponte lo dovrai vedere dalla nave, perché sopra c’è una specie di tunnel per le auto da cui non si vedrà niente. Non dimentichiamo che stiamo andando verso la mobilità elettrica e nei 30 minuti del traghettamento si potranno ricaricare le macchine e proseguire fino a Salerno senza fermarsi. Poi c’è l’aspetto economico: le tariffe del Ponte sono tarate sulle nostre, quindi, se facciamo lo sconto tanti mezzi non baderanno ai 20 minuti in più quanto a spendere 20 euro in meno. Quindi ci sarà un equilibrio nuovo come è successo in tutti i posti dove hanno fatto un ponte».

Diceva che una prospettiva è quella siciliana.

«Il Ponte non nasce per le auto e per i camion ma per i treni. Sui viaggi che durano 10 o 12 ore per andare dal Nord al Sud dell’Italia i 20 o 40 minuti della traghettata non cambiano nulla, dove cambia tanto sono i treni. Oggi il treno più veloce che c’è traghetta in tre ore. Un treno merci ne impiega anche sette, perché non ha la priorità, quindi deve aspettare, poi si devono scomporre e ricomporre: è tutto molto lento. Se ci fosse un sistema veloce, in quello stesso arco di tempo, si arriverebbe da qui a Salerno. Questo è il vero valore aggiunto del Ponte: l’essere un pezzo fondamentale della catena logistica ferroviaria».

Senza Alta velocità anche in Calabria, quindi, l’opera perderebbe la sua utilità?

«Quando spendi 11 miliardi per il Ponte e qui in Sicilia già stanno lavorando da anni verso Palermo e verso Catania, vuol dire che il Paese ha deciso di fare quell’investimento da almeno 100 miliardi che serve a collegare con le linee, quantomeno alta velocità merci, il sud della Sicilia col Nord Italia».

Ingegner Franza, il Ponte sullo Stretto che effetto può avere per la Sicilia?

«Quello di farla diventare veramente il centro del Mediterraneo. Oggi le linee di navigazione che collegano l’Africa con l’Europa non si fermano in Italia, vanno in Francia, Spagna, Venezia, Trieste. Perché? Perché non avrebbe nessun senso scendere in Sicilia se manca il collegamento. Il giorno in cui la Sicilia avrà un trasporto ferroviario serio che porta anche merci a basso valore – perché la merce più povera la porti col treno – quel giorno la Sicilia diventerà piattaforma logistica per qualunque collegamento con l’Africa. Questo è il cuore logico del Ponte. In Sicilia oggi, passano tutti i collegamenti internet che uniscono l’America con l’Asia. Passano da qua, perché siamo al centro del Mediterraneo. I turisti vengono in grande numero, però logisticamente è come se fossimo da un’altra parte. Se facessero il Ponte solo per portare macchine o camion sarebbe ridicolo. Veramente come dicono i grillini metti 10 navi in più, fai un porto collegato e con un miliardo passerebbero macchine e camion senza neppure accorgersene. Il Ponte, ripeto, servirà per i treni merci».

C’è anche il punto di vista cittadino che riguarda Messina e Villa San Giovanni

«Il posto dove si discute se si farà o no il Ponte non può essere Messina o Villa, noi non possiamo parlare di sì o no perché è ridicolo che il posto in cui si realizzano le infrastrutture abbia un’opinione. Noi possiamo discutere solo del come si farà il Ponte e dobbiamo combattere per il come. È necessario farlo su tre logiche molto semplici: disturbo del cantiere, lavorando perché l’impatto con le città sia minimizzato; potenziamento infrastrutturale, cioè cogliere l’occasione per migliorare stazioni, ferrovie, strade; ma soprattutto far diventare l’opera una realtà turistica che porti soldi».

Quindi vede l’opera anche come un’opportunità turistica?

«Il Ponte sarà la Tour Eiffel dell’area integrata dello Stretto. Se solo riuscissimo a convincere metà di quelli che scendono da una nave da crociera ad andare sul Ponte, renderlo visitabile, creare degli osservatori, celebrare il matrimonio nell’osservatorio più alto del Ponte e metterci magari la suite per dormire. Per salire sul grattacielo più alto del mondo, il Buri Khalifa a Dubai, si pagano 100 euro a persona. Sarà il ponte più lungo del mondo, con le torri più alte del pianeta e un panorama da cui vedere l’Etna e Stromboli: dobbiamo lavorare per far sì che questa diventi l’attrazione turistica più importante d’Italia. Su molte di queste cose si sta già ragionando. Il pilone del Ponte ha già due ascensori e mi ricordo che quando lo presentarono la prima volta, parlando con il progettista gli dissi “scusa perché non mettete un osservatorio?” “Ma che bella idea! – mi fa – Nessuno ce l’ha detto”. Stavolta siamo partiti prima e già la Stretto di Messina ha detto facciamone uno per lato. Si potrebbero fare feste, riunioni, bungee jumping. Si può rendere il Ponte visitabile per apprezzarne le tecnologie e realizzare un museo; poi abbiamo la teleferica di manutenzione del Ponte che cammina sul cavo e anche questa potrebbe diventare un’attrazione turistica».

È questo quello che, secondo Vincenzo Franza, oggi manca al progetto e all’idea del Ponte sullo Stretto?

«Stare sotto i ponti è per definizione una cosa negativa e allora come farla diventare una cosa positiva? Valorizzando l’infrastruttura, facendola diventare “la Tour Eiffel dello Stretto”. L’avrete certamente sentito dire a Salvini; sono stato io a portaglielo come esempio. Con 500mila turisti all’anno fai metà del fatturato che fa oggi lo Stretto per traghettare le auto, quindi, porti più ricchezza al territorio di quanta ne sottrai togliendo una cosa».

Dotto Franza… e se poi il Ponte sullo Stretto non si fa?

«Io ritengo che un’opera di questa portata una volta che la si comincia la si finisce. Tra l’altro la parte veramente complessa e che è soggetta al rischio non è il Ponte, ma sono i collegamenti. Questo modello di ponte si chiama il “Messina style”, eppure ce ne sono già tre in giro per il mondo tranne che a Messina. Comunque noi non programmiamo pensando al Ponte. Già adesso più del 50% del fatturato non è sviluppato qua e in futuro continueremo a collegare tutti i posti possibili».

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