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ROMA – Il testo definitivo della direttiva licenziata ieri dall’Ue per la promozione dell’adeguatezza dei salari minimi legali rispetto a condizioni di vita e di lavoro dignitose dovrà fare i conti, soprattutto al Sud, con la fragilità strutturale occupazionale e di reddito solo aggravata dalla pandemia. Essendosi – si legge nel dossier della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro “Il lavoro nel Mezzogiorno tra pandemia e fragilità strutturali”, la prima indagine del dopo pandemia con dati Istat regionali e provinciali aggiornati al 2021 – la crisi abbattuta “su un sistema del lavoro che negli ultimi decenni aveva visto progressivamente assottigliare la partecipazione delle Regioni meridionali al mercato nazionale, pur con qualche tiepido segnale di ripresa proprio prima del 2020”.

Ma c’è un di più. C’è il dato, secondo l’indagine, di diversità importanti all’interno della stessa vasta area Mezzogiorno. Se, infatti, le percentuali diffuse del Sud Italia vanno nell’unica direzione di un peggioramento che sembra non conoscere inversione di rotta per calo della popolazione occupata, precarizzazione, calo degli stipendi e impoverimento delle famiglie, divario di genere ed emergenza giovani, sia formativa che lavorativa, assume sempre più rilevanza (e in peggio) il dettaglio territoriale regionale e anche quello delle singole province.

Premesso – precisano i Consulenti del lavoro – che il calo occupazionale interessa tutte le realtà regionali, con la sola eccezione della Basilicata, che registra invece nel biennio 2019-2021 una crescita dello 0,8%, tra le realtà che hanno registrato le maggiori perdite, insieme a Molise e Sardegna, c’è la Calabria (-3,3%). Anche osservando lo stesso fenomeno attraverso il tasso di occupazione, la situazione delle regioni meridionali continua ad essere, oltre che difficile, estremamente differenziata. La Calabria, insieme a Sicilia e Campania, è ferma da anni su livelli occupazionali di oltre 15 punti inferiori al resto del Paese, non superando il 42%. In Abruzzo, Molise e Sardegna, di contro, la quota di popolazione 15-64 anni che lavora è comunque maggioritaria (57,8% in Abruzzo, 53,6% in Sardegna e 52,3% in Molise). Una forbice che pesa anche nel confronto con Puglia e Basilicata, regioni in cui si registra una crescita, dal 46,3% al 46,7 nella prima e dal 50,7% al 52,5% nella seconda.

A livello provinciale i divari diventano ancora più ampi. Con un tasso di occupazione del 37,4%, se Napoli risulta nel 2021 la provincia con la percentuale più bassa di occupati sul totale della popolazione, il capoluogo partenopeo si attesta non lontano da Crotone (37,7%), oltre che da Caltanissetta (37,6%), Catania (39%), Agrigento (39,8%) e Palermo (39,9%); tutte province in cui solo 4 persone su 10 in età da lavoro hanno un’occupazione. In controtendenza, le province meridionali con il tasso di occupazione più elevato sono Teramo che, con il suo 60,4% si colloca al di sopra della media nazionale, seguita da L’Aquila (57,3%), Cagliari (57,2), Chieti (57,1%), Pescara (56,6%), Nuoro (55,4%), Isernia (55,1%) e Matera (52,9%).

Restano invece nella parte bassa della classifica, insieme a Crotone, anche Vibo Valentia e Reggio Calabria (rispettivamente, 40,1% e 40%).

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